Notte di Capodanno: 5 usanze tutte italiane

 

“Festeggiate i finali dell’ anno, perchè precedono i nuovi inizi.”

(Jonathan Lockwood Huie)

 

Buon 31 Dicembre! Oggi il 2022 finisce e il 2023 arriverà proprio stanotte, a mezzanotte in punto, tra fuochi d’artificio, brindisi, balli sfrenati e champagne a fiumi. Ci piace pensare che ogni 1 Gennaio sia foriero di novità, di cambiamenti, di una gioia e una serenità che si sostituiscano alle magagne dell’ anno vecchio. Ma anche se le situazioni difficilmente mutano solo perchè ci attendono 365 giorni nuovi di zecca, la speranza è una buona cosa: predispone al pensiero positivo, alla positività degli atteggiamenti. E pensare positivo, si sa, attira la fortuna. A proposito di fortuna: non è un caso che a Capodanno i riti propiziatori si moltiplichino, che le usanze beneaugurali spadroneggino in tutti i paesi del mondo. Ho scelto di approfondirne cinque, rigorosamente made in Italy, per capire meglio come nascono e in che modo si propongono di calamitare la buona sorte.

 

 

1. I botti

La notte di Capodanno è costellata dall’esplosione di una miriade di petardi, i cosiddetti “botti”, e di fuochi d’artificio. Questa tradizione si affermò a partire dal XVII secolo, quando venne introdotta a scopo celebrativo in occasione di particolari eventi o ricorrenze. Il rumore assordante e improvviso, il “botto” appunto, è alla base dell’ usanza: da un lato, favorisce l’espulsione dell’ anno vecchio e delle sue brutture, dall’ altro spaventa i demoni e gli spiriti maligni costringendoli a fuggire a gambe levate. Oggi, a prevalere è senz’altro l’aspetto scenografico; i fuochi d’artificio sono degli autentici capolavori pirotecnici, uno spettacolare tripudio di colori e luminosità.

 

 

2. Baciarsi sotto il vischio

Pianta sacra dei Druidi, il vischio aveva il potere di curare ogni malattia ed era un simbolo di fertilità e rigenerazione. I Celti lo utilizzavano come parafulmine e lo consideravano un elemento di interconnessione con il Cielo. Secondo la mitologia norrena, le bacche di vischio furono originate dalle lacrime che la dea Freya versò per la morte del figlio Balder, e proprio le stesse bacche lo riportarono in vita. La leggenda vuole che Freya protegga gli innamorati che si baciano sotto il vischio, pianta emblema di amore e di fecondità. La tradizione, per chi si ama, è di buon auspicio: rafforza il sentimento e lo preserva dalle insidie esterne.

 

 

3. Far ardere una candela

Questa bella tradizione mi ricorda vagamente quella del “Ceppo di Yule” (rileggi qui l’articolo): la candela viene accesa un po’ prima che scocchi la mezzanotte e, mentre si consuma, ci accompagna nel passaggio dall’ anno vecchio all’ anno nuovo. Il fuoco simbolizza la purificazione, la trasformazione, la rinascita, ma anche il colore della candela assume una valenza particolare. Sceglietela bianca oppure rossa se volete che sia di buon auspicio per l’ amore e per gli affetti in generale, verde se privilegiate il benessere economico.

 

 

4. Le lenticchie

Pensare a una cena di Capodanno senza lenticchie o melagrana è pressochè impossibile. Entrambe propiziano la prosperità: sono il cibo del 31 Dicembre per antonomasia, gustosissimo oltre che beneaugurale. Le lenticchie, così come i chicchi della melagrana, hanno una forma tondeggiante che rievoca quella delle monete, mentre la carne di maiale che accompagna i legumi di Capodanno, dalla consistenza piuttosto grassa, simboleggia l’ abbondanza. I semi rossi della melagrana, dal canto loro, attirano sì la ricchezza, ma anche la fertilità. E, last but not least, sono un emblema di lunga vita.

 

 

5. Disfarsi dei vecchi oggetti

Buttare via il vecchio per fare spazio al nuovo: è il significato, in sintesi, di questa tradizione. Soprattutto nell’ Italia meridionale, si usa lanciare i piatti dalla finestra a mezzanotte; i loro cocci in frantumi allontanerebbero la mala sorte. In genere, comunque, dalla finestra o dal balcone si getta qualsiasi tipo di oggetto datato, rotto o inutilizzato, che sia di grandi o di piccole dimensioni. L’usanza permane prevalentemente nei piccoli centri, per cui occhio: il lancio di certe suppellettili potrebbe rivelarsi persino più pericoloso dello scoppio dei petardi!

 

 

 

Il Ceppo di Yule, un’ antica e suggestiva tradizione del Solstizio d’Inverno

 

” Solstizio d’inverno.
Sembra che il mondo voglia dare le spalle alla luce.
I colori nascondono il loro volto.
La terra coltiva l’ombra
come se fosse l’unica cosa che cresce.”
(Fabrizio Caramagna)

 

21 Dicembre, Solstizio d’Inverno: è il giorno più corto dell’ anno. Le ore di buio trionfano, fagocitando quelle di luce. Il Sole, giunto al punto di declinazione minima nel suo moto apparente lungo l’eclittica, sembra arrestarsi (non è un caso che il termine “Solstizio”, in latino “Solstitium”, derivi da “sol”, sole, e “sistere”, ovvero fermarsi). L’atmosfera è sospesa, la natura e il cosmo partecipano silenziosamente a questo importante momento di transizione. Perchè quando l’oscurità raggiungerà il suo apice, la luce ricomincerà ad avanzare a poco a poco. E il Sole rinascerà, si rinnoverà, tornerà a regnare sulla notte. Nell’ era pre-cristiana, i popoli germanici battezzarono “Yule” il giorno del Solstizio: “Hjòl” designava, in norreno, la ruota dell’ anno, che si trova nel suo punto più basso quando l’ Inverno entra ufficialmente. “Hjòl” si tramutò poi nel norreno Jòl e nel tedesco Jul. Tuttora è possibile rinvenire questi termini nelle lingue scandinave, dove indicano sia il Solstizio d’Inverno che il Natale“Jul” in svedese e danese, “Jol” in norvegese, “Joulu” in finlandese (con il significato, però, esclusivamente di “Natale”).

 

 

In un’ epoca in cui la sopravvivenza era legata a doppio filo ai cicli della natura, è facile intuire l’importanza che rivestiva Yule. La resurrezione della luce era un evento ricco di magia, di rituali associati a una simbologia antichissima. Per approfondire questi aspetti, vi rimando all’ articolo “Yule” che ho pubblicato su VALIUM l’anno scorso (rileggilo qui). Oggi ci concentreremo invece su un particolarissimo cerimoniale associato al Solstizio, il Ceppo di Yule o Yule Log.

 

 

I popoli nordici dell’ età pre-cristiana solevano celebrare il Solstizio d’Inverno con  un grosso tronco beneaugurale. La notte più lunga dell’ anno il ceppo si adornava di nastri, bacche e ramoscelli d’edera, poi veniva benedetto e fatto ardere per i dodici giorni dei festeggiamenti solstiziali. Secondo la tradizione, il fuoco precedente doveva essere spento dal capofamiglia e per riaccenderlo si doveva utilizzare un tizzone del tronco bruciato durante il Solstizio dell’ anno prima. Questo rituale aveva una potente valenza emblematica: il fuoco e il suo calore simboleggiavano la nuova luce, l’ardore del Sole che quella notte rinasceva e sarebbe tornato a splendere progressivamente. Ma il fuoco era anche una metafora della vita stessa. Nelle gelide lande del Nord Europa, i focolari erano sempre accesi; il caminetto riscaldava e risultava essenziale per il nutrimento, dal momento che il fuoco si utilizzava per cucinare. Il Ceppo di Yule, dunque, era un emblema di buon auspicio associato alla luce, alla rinascita della natura, alla prosperità: i fondamenti della sopravvivenza.

 

 

Quando il Cristianesimo sostituì le celebrazioni natalizie a quelle solstiziali, lo Yule Log divenne una costante della vigilia di Natale. Le prime testimonianze relative a questa tradizione risalgono alla Germania del XII secolo: un documento del 1184 cita un ceppo di Natale che, acceso la notte di vigilia, veniva fatto bruciare fino all’ Epifania. Alla ricerca del legno adatto si dedicavano giornate intere. I tronchi dovevano essere di albero secco, idonei alla combustione, e non essere stati eletti a tana da qualche animale. In Scozia, gli antichi Celti erano soliti scolpire una figura femminile nel ceppo: raffigurava la Cailleach Nollag, una dea dell’ Inverno, il cui aspetto sinistro veniva stemperato dalle fiamme. Era un emblema della ciclicità della natura; dopo la notte del Solstizio, ogni ora di luce in più equivaleva a un passo verso la Primavera. Con l’avvento del Cristianesimo, la valenza simbolica dello Yule Log mutò completamente: il ceppo aveva la funzione di scaldare Gesù Bambino, mentre il fuoco incarnava l’emblema della Redenzione.

 

 

Dalla Germania, la tradizione dello Yule Log si diffuse in Gran Bretagna, nella penisola scandinava, in tutta la zona alpina, in Spagna, nei paesi dei Balcani e, last but not least, in regioni italiane quali la Lombardia e la Toscana. Successivamente, l’usanza sbarcò persino negli Stati Uniti. Il cerimoniale era simile ovunque: la vigilia di Natale, il ceppo veniva decorato (bacche, pigne, aghi di pino, vischio e piante rampicanti erano gli elementi più usati) e bruciato nel camino con una solenne cerimonia beneaugurale. Lo Yule Log si lasciava ardere per dodici notti di fila, fino all’ Epifania, e i suoi rimasugli, considerati magici, venivano conservati con cura. Ad essi si attribuivano benefici per la fecondità femminile, il raccolto, gli animali da allevamento, il benessere fisico, ed era d’uso utilizzarli per accendere il ceppo del Natale successivo. Ogni paese ha donato la propria impronta a questo rituale. Anche la pianta scelta per il ceppo variava da nazione a nazione: in Gran Bretagna, dove l’ usanza dello Yule Log venne adottata massicciamente, si preferivano la quercia, il pino, la betulla; i serbi optavano per la quercia, mentre i francesi puntavano sugli alberi da frutto.

 

 

Tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo, la tradizione del Ceppo di Natale scomparve pressochè totalmente. L’ avvento delle stufe e il minor numero di camini presenti nelle case dell’ epoca fece sì che l’usanza, a poco a poco, si perdesse. Lo Yule Log, tuttavia, continua a esistere sotto un’altra forma: il tronchetto di Natale, uno dei dolci più golosi delle feste. Si tratta di un tronchetto di Pan di Spagna ricoperto di cioccolato e farcito con svariate creme. L’ aspetto è quello di un ceppo ornato di molteplici decorazioni: provate a prepararlo in casa per un Solstizio all’ insegna del gusto. Oppure, ripristinate la tradizione dello Yule Log. Procuratevi un ceppo su cui praticherete dei fori per inserirvi alcune candele. I colori di queste ultime potranno essere tipicamente natalizi, come ad esempio il rosso, il verde, l’oro. Decorate il ceppo con piante, fiori e bacche stagionali. Le candele andranno fatte bruciare durante la notte di Yule: è una variante contemporanea del Ceppo di Natale, ma risulta sempre di grand’effetto.

 

 

Foto del Ceppo di Yule con candele di Jeremy Fulton via Flickr, CC BY-NC-ND 2.0

 

San Martino

 

“A San Martino, castagne e vino.”

 

Da dove nasce esattamente questo proverbio? Anche se l’ 11 Novembre si celebra San Martino (narra la leggenda che, durante una tempesta, donò metà del suo mantello a un mendicante infreddolito, e che subito dopo il sole tornò a splendere), il detto ha poco a che vedere con il vescovo cristiano sepolto a Tours nel 397. Si ricollega invece agli antichi contratti di mezzadria e alle fasi dell’ attività agricola. In autunno, con l’ ultimo raccolto, i mezzadri concludevano il loro operato e rimanevano in attesa della buonuscita. Ma non ricevevano denaro: venivano pagati in natura. Il signore proprietario dei terreni li congedava con castagne e vino a volontà, perchè erano i prodotti più preziosi che la stagione potesse offrire. Il castagno, non a caso, veniva chiamato “l’albero del pane”, perchè i suoi frutti rappresentavano un alimento indispensabile per la sopravvivenza: essiccati e macinati a dovere, davano origine a una farina dall’ elevato valore nutrizionale e più economica rispetto a quella di frumento. Con questa farina si preparavano il pane e i dolci, ma le castagne venivano gustate anche bollite oppure arrosto. Il vino era la bevanda ideale da abbinare a un cibo tanto succulento. Entro il mese di Novembre, quindi, doveva essere assolutamente pronto per destinarlo ai mezzadri.

 

 

Nacque così il vino Novello, fruttato, avvolgente e ottenuto con una speciale tecnica di vinificazione.  La tradizione del vino Novello di San Martino è giunta fino a noi, sebbene con modalità diverse: oggi, non è legata alla scadenza di alcun tipo di contratto. In Italia, il vino Novello viene immesso al consumo a partire dal 30 Ottobre. Per mantenere inalterate le sue doti, tuttavia, rimane in vendita solo fino al 31 Dicembre: questo vino non migliora con l’ invecchiamento. A San Martino, usanza vuole che lo si accompagni alle castagne arrosto; un rituale che, come abbiamo visto, ha radici antiche e fa parte del nostro retaggio storico-culturale.

 

 

La guazza di San Giovanni

 

“La guazza di San Giovanni guarisce tutti i malanni”

(Proverbio)

 

Se il Solstizio d’Estate inneggia alla potenza del Sole, la notte di San Giovanni è dominata dalla Luna sotto tutti gli aspetti: la magia che la pervade, le sue tradizioni ataviche, le credenze popolari, la rendono una delle ricorrenze più suggestive della stagione calda. E’ una “notte delle streghe” – a differenza di Halloween – priva di connotati orrorifici, focalizzata sui riti propiziatori e sulla divinazione. La conosciutissima “acqua di San Giovanni”, ad esempio, nasce sfruttando il potere benefico della Natura, della rugiada della notte tra il 23 e il 24 Giugno (che per i Celti possedeva virtù miracolose) e dei raggi lunari. La guazza veniva considerata un toccasana per la fertilità femminile, ma anche per mantenere la pelle giovane, guarire dalle malattie e rinfrancare lo spirito. Si pensava che favorisse la fortuna, soprattutto in amore. Per preparare l’ acqua di San Giovanni si soleva raccogliere erbe e fiori alla vigilia della festa del Santo: ginestre, iperico, menta, lavanda, camomilla, petali di rosa canina e coltivata, papaveri, fiordalisi, salvia, verbena, calendula, alloro, rosmarino, malva, artemisia, timo, maggiorana, sambuco, trifogli e ranuncoli erano le tipiche piante utilizzate. Subito dopo la raccolta, le “erbe magiche” venivano messe a bagno in un bacile. Il preparato doveva essere lasciato all’ aperto tutta la notte affinchè assorbisse la rugiada e gli influssi del chiarore lunare. La mattina del 24 Giugno, quindi, ci si lavava il viso e il corpo con questa portentosa acqua di fiori. L’usanza è stata tramandata fino a noi e rimane senza dubbio la tradizione più celebre associata alla notte di San Giovanni.

 

Tradizioni ed emblemi pasquali: dalla dea Eostre all’ Easter Bunny

 

Vi siete mai chiesti perchè il coniglio è uno dei più celebri emblemi pasquali? Il motivo risale a Eostre, la divinità germanica della fertilità e della rinascita. Il suo nome potrebbe derivare da “Aus”, ossia “Est”. E’ un’ ipotesi plausibile se pensiamo che Beda il Venerabile, monaco e storico anglosassone vissuto tra il 600 e il 700 d.C., nel trattato “De temporum ratione” descrisse la dea come l’ incarnazione del punto cardinale dove sorge il sole (l’ est, appunto). In quanto divinità della rigenerazione, e data la prolificità dei lagomorfi, Eostre veniva spesso raffigurata con le sembianze di una lepre o di un coniglio. In altre rappresentazioni aveva le fattezze di una fanciulla, ma esibiva la testa di una lepre. Oppure ancora, era ritratta insieme a un coniglio sullo sfondo della luna piena. Il profondo significato simbolico di questa iconografia instaurò, nel tempo, un legame indissolubile tra la Pasqua e il tradizionale coniglietto. Antichi popoli come i Celti identificavano la dea Eostre con l’ Equinozio di Primavera e diedero a quest’ ultimo il nome di “Eostur-Monath”, poi evoluto in “Ostara”. Le popolazioni anglosassoni battezzarono “Eostre-monath” il periodo del risveglio della natura, del ritorno della luce, della rinnovata fertilità della terra. Quel periodo, com’è ovvio, era la Primavera; potremmo equipararlo all’ attuale mese di Aprile, allora dedicato quasi in toto alle celebrazioni e ai rituali in onore di Eostre. Con l’ avvento del Cristianesimo, l’ Equinozio di PrimaveraOstara – e i suoi festeggiamenti vennero inglobati nella Santa Pasqua. Non è un caso che la Domenica della Risurrezione, in alcuni paesi del Nord Europa, abbia assunto denominazioni derivanti da “Ostara” e “Eostre”: Pasqua è “Easter” in inglese, “Ostern” in tedesco.     

 

 

Emblemi primaverili quali il coniglio e l’uovo (un altro simbolo della fertilità, l’ embrione della Vita per eccellenza) entrarono a far parte della più importante festività cristiana. Narra un’ antica leggenda che un leprotto avesse l’ abitudine di tingere le uova di tutti i colori possibili in omaggio a Eostre. Per accattivarsi la simpatia della dea lasciava uova variopinte ovunque, finchè un giorno le offrì personalmente alla giovane divinità. Eostre, felicissima di ricevere quel dono, suggerì al leprotto di regalare le sue uova in tutto il mondo: ecco come nacque la tradizione del coniglietto pasquale, nei paesi anglosassoni “Easter Bunny”, che oggi è solito donare ai bimbi uova di cioccolato di ogni tipo e dimensione.

 

La colazione di oggi: zeppole napoletane, il dolce più goloso della Festa del Papà

 

Il 19 Marzo, Festa del Papà, è una data che coincide con la preparazione di prelibatezze dolciarie di ogni tipo. Dal Nord al Sud, ogni regione italiana vanta le sue golosità caratteristiche: in Liguria, Lombardia e Piemonte si usa gustare le frittelle di San Giuseppe, a Bologna le raviole, nel Centro Italia dei bignè fritti farciti, ma è il Meridione ad offrire una vasta panoramica di dolci tradizionali. In Sicilia, in particolare, vengono preparate le sfincie e le zeppole di San Giuseppe, queste ultime a base di riso, mentre in Campania – e soprattutto a Napoli – le zeppole proliferano in una versione assolutamente unica e inconfondibile. E’ la variante che mi accingo ad approfondire in questo articolo, incentrato sulle famose zeppole napoletane di San Giuseppe. Solo a vederle, fanno venire l’acquolina in bocca: sono ciambelle fritte guarnite con un’ abbondante dose di crema pasticciera sormontata da un amarena sciroppata (potremmo definirla una sorta di “ciliegina sulla torta”!).

 

 

Le origini di questo dolce sono affascinanti, ma le esamineremo più avanti; inizio col dirvi che le zeppole hanno radici antichissime e che la loro prima ricetta è datata addirittura 1837, quando fu inclusa in un trattato di cucina di Ippolito Cavalcanti. A Napoli, si usa preparare le zeppole in occasione della Festa di San Giuseppe e quindi della Festa del Papà. Ne esistono due versioni, una fritta e una al forno, ma gli ingredienti sono identici: uova, zucchero, farina, burro, olio d’oliva, crema pasticciera, amarene sciroppate e zucchero a velo per guarnire il dolce. Recentemente sono state aggiunte alcune variazioni alla ricetta principale, che arricchiscono le zeppole di un ripieno di panna o di crema gianduia. La zeppola classica, comunque, è un’autentica delizia anche nella meno elaborata delle varianti.

 

 

Passiamo ora alla storia e alle origini di questo dolce squisito. Le radici delle zeppole risalgono nientemeno che all’ antica Roma. L’ aspetto del dessert di San Giuseppe, tuttavia, era abbastanza diverso da quello attuale: si presentava come una frittella cosparsa di zucchero o di cannella, e veniva preparato con un semplice impasto di acqua, farina e sale.  A Napoli, un paio di secoli orsono, le zeppole si acquistavano dagli ambulanti che le friggevano direttamente per strada. Quando mancava poco a San Giuseppe, le vie del centro storico si riempivano di carrettini che le esponevano accanto ai panzarotti, un’ altra celebre tipologia di street food. Ma quale collegamento esiste tra le zeppole e la festa del padre putativo di Gesù? E’ molto semplice: si diceva che Giuseppe, oltre che un falegname, fosse anche un friggitore. Le prime zeppole nacquero nel ‘700 all’ interno dei conventi napoletani. Non è noto in quale, di preciso, venne elaborata la ricetta; di solito si citano i monasteri di San Gregorio Armeno, quello della Croce di Lucca e quello di Santa Maria dello Splendore. Che siano state le monache ad ideare le zeppole di San Giuseppe, è un dato di fatto. La storia di questo ghiotto dolce si intreccia costantemente alla leggenda: correva voce che, quando Maria e Giuseppe si rifugiarono in Egitto per sfuggire alla strage degli innocenti, Giuseppe divenne un friggitore di frittelle allo scopo di mantenere  la giovane moglie e il figlioletto. La tesi che fa risalire le zeppole all’ antica Roma, invece, fissa le loro origini alle Liberalia, celebrazioni in onore delle divinità del vino e del frumento. Durante quelle feste, tenutesi ogni 17 Marzo, si inneggiava ai Sileni (creature per metà uomini e per metà cavalli che appartenevano al corteo di Dioniso, ovvero Bacco) bevendo vino arricchito di un mix di spezie e miele, ma si preparavano anche frittelle di grano rosolate nello strutto. Quando il Cristianesimo fu assurto a religione di Stato, la tradizione delle frittelle fu posticipata al 19 Marzo in omaggio a San Giuseppe; i dolcetti divennero quindi rappresentativi della devozione nei confronti del Santo

 

 

Per quanto riguarda la ricetta delle zeppole napoletane rinvenuta nel 1837, era inclusa (come vi ho già accennato) nel trattato “La Cucina Teorico Pratica” di Ippolito Cavalcanti duca di Buonvicino. L’ ideazione viene attribuita a un certo Pintauro, che si ispirò alle frittelle di grano dell’ antica Roma e, insieme al Cavalcanti, decise di arricchirle di nuovi ingredienti: all’ impasto essenziale a base di farina, sale e acqua vennero aggiunti lo strutto, le uova e alcuni aromi. La frittura fu suddivisa in due passaggi, utilizzando prima l’olio e poi lo strutto. Il dolce ottenuto venne chiamato “zeppola” perchè la sua forma, che sembra attorcigliarsi su se stessa, rievoca quella di una serpe (“serpula” in latino). Le zeppole tipiche delle altre regioni d’Italia si differenziano da quelle napoletane sia riguardo agli ingredienti che alle modalità di preparazione. Tornando alle zeppole partenopee (senza togliere nulla alle altre, che purtroppo non conosco a sufficienza), un consiglio spassionato: quando siete all’ ombra del Vesuvio, non perdetevele per nulla al mondo.

 

 

Foto (dall’ alto): n. 1 di News21 – National, CC BY 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.0>, via Wikimedia Commons, n. 3 via Ilares Riolfi from Flickr, CC BY 2.0, n. 5 via Pearl Pirie from Flickr, CC BY-NC-ND 2.0

I Giorni della Merla

 

Oggi iniziano i “Giorni della Merla”, i più freddi dell’ anno. Fino al 31 Gennaio, secondo antiche credenze popolari, le temperature raggiungono valori sottozero. E’ il picco dell’ inverno, il trionfo del gelo prima della graduale avanzata della primavera. Svariate leggende incentrate sulla figura di una merla (leggile cliccando su questo link) hanno ispirato la denominazione del 29, 30 e 31 Gennaio, date che anticamente si ritenevano cruciali per prevedere il meteo della stagione successiva: si pensava che se i Giorni della Merla fossero stati glaciali, la primavera sarebbe stata assolata e molto tiepida, e che a Giorni della Merla baciati dal sole sarebbe seguita una primavera tardiva. In attesa di accertare la veridicità di queste tradizioni, godetevi la gallery qui sotto. Ad arricchirla sono proverbi tipici di diverse regioni italiane, per rendere ancora più suggestiva la valenza assegnata agli ultimi tre giorni di Gennaio. Buona visione e buon weekend della Merla!

 

 

“Se li gljorni de la merla voli passà, pane, pulenta, porcu e focu a volontà!” (“Se i giorni della Merla vuoi ben passare, pane, polenta, maiale e fuoco del camino a volontà”)

Proverbio marchigiano

 

 

” Quando canta il merlo, siamo fuori dall’ inverno”

Proverbio bolognese

 

 

“Canta il merlo, l’ inverno è finito, ti saluto padrone, trovo un altro tetto!”

Proverbio bergamasco

 

 

” Due soldi li ho a prestito e uno lo troverò. Se bianca sei, nera ti farà, e se nera sei, bianca diventerai. ” (in riferimento alla leggenda della merla)

Proverbio bresciano

 

 

La colazione di oggi: il panettone, ghiottoneria natalizia da Milano al mondo

 

Latte, uova, burro, zucchero, vaniglia, canditi, uva sultanina…Il solo menzionare i suoi ingredienti evoca sentori di pura delizia: non è un caso che il panettone sia il dolce del Natale per eccellenza. Includerlo nella prima colazione è un’ idea perfetta, dato l’ alto apporto calorico che fornisce. Eh già, questo non si può negare: il panettone è una vera e propria bomba di calorie (circa 350 in 100 grammi). Ecco perchè è molto meglio gustarlo di mattina, piuttosto che a fine pasto. Affondare i denti nel suo impasto morbido, assaporando la dolcezza dei canditi e delle uvette, è un piacere che non conosce eguali. Un Natale senza panettone non può considerarsi veramente Natale: i due, insieme, compongono un binomio inscindibile. Ma quali sono le proprietà del tipico dolce milanese? Consumarlo comporta più benefici o controindicazioni? Cominciamo subito con gli alert, che riguardano soprattutto chi soffre di determinate patologie. Il panettone abbonda di lipidi, carboidrati, grassi saturi, peptidi, colesterolo. Di conseguenza, dovrebbe evitarlo chi è affetto da diabete o da ipercolesterolemia. A suo favore va invece detto che è ricco di proteine e di fibre, un elemento nutritivo importantissimo per il nostro organismo. La lunga lievitazione a cui viene sottoposto il dolce determina la presenza del glutine, mentre il burro e le creme che a volte lo farciscono contengono lattosio in quantità. Un altro punto di forza del panettone è costituito dalle vitamine: le molecole idrosolubili del gruppo B prevalgono, seguite dalla vitamina A e dalla vitamina D. Riguardo i sali minerali, il ferro trionfa grazie al tuorlo d’ uovo contenuto nel prodotto. Lo seguono a ruota il calcio e il fosforo.

Iniziare la giornata con una fetta di panettone e un buon caffè è una coccola che facciamo a noi stessi. La consistenza, il profumo, il sapore del “dolce del Natale” sono unici: la presenza del burro li esalta, favorendo inoltre una buona conservazione. Il panettone, se ci fate caso, rimane soffice e invitante per molti giorni. Ovviamente, va consumato con parsimonia. Ma le eccezioni alla regola sono previste, specie durante le feste natalizie. Anche perchè in altri periodi dell’ anno sarebbe improbabile farne incetta!

Le tradizioni e le leggende sul panettone hanno un denominatore comune: la matrice milanese. Tra le leggende che lo circondano, molte risalgono al Medioevo. Una di queste, ambientata a Milano, narra che il falconiere Messer Ulivo degli Atellani fosse innamorato della figlia di un fornaio, la bella Algisa. Per corteggiarla organizzò uno stratagemma: iniziò a lavorare come garzone nella bottega del padre e, con l’ intento di non passare inosservato, si inventò un dolce mai visto prima. L’ impasto era composto da burro, miele, uova e uva sultanina, un’ autentica squisitezza. Il dolce piacque talmente che il forno si affollò di nuovi clienti. Messer Ulivo ottenne la mano di Algisa e potè così coronare il suo sogno. Un’ altra leggenda viene associata alla corte di Ludovico il Moro. Il giorno di Natale, il Duca diede un pranzo a cui invitò numerosi ospiti. Ma dopo aver messo a cuocere il dolce, il cuoco disgraziatamente lo dimenticò nel forno. Quando lo tirò fuori era pressochè carbonizzato. Fu allora che a Toni, un giovane inserviente di cucina, balenò un’ idea: mostrò al cuoco un dessert che aveva preparato con degli ingredienti trovati in dispensa, e gli propose di servirlo in tavola. Il dolce a base di burro, uova, farina, scorza di cedro e uvette riscosse un successo incredibile tra i nobili ospiti di Ludovico Il Moro. Quando questi chiese al cuoco come si chiamasse quella leccornia, costui rispose “L’è ‘l pan del Toni”. Pare che il nome “panettone” derivi proprio da questa frase.

Secondo Pietro Verri, la nascita del panettone sarebbe datata addirittura al IX secolo: in “Storia di Milano” racconta che il giorno di Natale, nella città meneghina,  vigeva l’ usanza di consumare dei “pani grandi”. Al Natale veniva associata un’ ulteriore tradizione, stavolta risalente al XV secolo. I fornai, quel giorno, vendevano al popolo e agli aristocratici lo stesso tipo di pane. Durante l’ anno, infatti, esistevano un “pane dei poveri” e un “pane dei ricchi”. Il pane del Natale, detto “pan de ton” (da notare la somiglianza con il termine “panettone”), conteneva miele, burro e zibibbo, una pregiata varietà di uva. Nel 1599, “grandi pani” preparati con burro, spezie e uvetta comparivano nell’ archivio spese del Collegio Borromeo di Pavia. Il loro consumo era previsto per il pranzo di Natale. Tra il ‘700 e l‘800, a Milano venne incrementata l’ apertura dei forni e delle pasticcerie; nel XIX secolo il panettone era già un dolce pregiato e conosciutissimo. Con l’avvento dell’ industrializzazione, nel 1900 cominciò ad essere prodotto su vasta scala. Tuttavia, a Milano, la tradizione del panettone artigianale non venne mai meno. Fornai e pasticceri hanno sempre utilizzato la ricetta originale del dolce e a tutt’oggi continuano a prenderla come riferimento. Negli anni ’50 del XX secolo il panettone divenne uno dei prodotti di punta dell’ industria dolciaria. Esportato in tutto il mondo, nel 2005 la sua produzione è stata disciplinata da un decreto che determina le caratteristiche di un panettone affinchè possa essere definito tale.

 

 

Santa Lucia

 

” Il 13 Dicembre, al mattino presto, quando freddo e oscurità regnavano sulla terra del  Värmland fino ai tempi della mia infanzia, santa Lucia di Siracusa entrava in tutte le case sparse tra le montagne della Norvegia e il fiume Gullspång. Portava ancora, almeno agli occhi dei bambini, una veste bianca di luce di stelle e sui capelli una ghirlanda verde con fiori ardenti di luce, e svegliava sempre chi dormiva con una bevanda calda e profumata che versava dalla sua brocca di rame. Mai mi capitò all’ epoca visione più meravigliosa di quando la porta si apriva e lei entrava nel buio della mia stanza. E vorrei augurarmi che mai smetta di apparire nelle fattorie del Värmland. Perché è lei la luce che sconfigge le tenebre, è la leggenda che vince l’oblio, è quel calore interiore che rende le contrade gelate ammalianti e piene di sole nel cuore dell’inverno. “

Selma  Lagerlöf, da “La leggenda della festa di Santa Lucia” (ne “Il libro di Natale”)

 

La rubrica Le perle di VALIUM si fonde con il post odierno per celebrare la Festa di Santa Lucia, la “Santa della Luce”. Voglio omaggiarla tramite un estratto che ho selezionato da “Il libro del Natale” (1933) di Selma Lagerlöf, scrittrice svedese Premio Nobel per la Letteratura nel 1909. Tra gli otto racconti a tema natalizio in cui Lagerlöf esplora ricordi, atmosfere, fiabe popolari della tradizione scandinava, ne appare infatti uno intitolato “La leggenda della festa di Santa Lucia”. E’ suggestivo e magico, e volevo proporvene il finale. Perchè Santa Lucia è una delle feste dell’ Avvento che mantiene un’ impronta indelebile nell’ immaginario collettivo. Il nome stesso della Santa, che deriva dal latino “Lux” (“luce”), sembra emanare un avvolgente alone luminoso: un dettaglio indicativo, nel periodo in cui le notti si allungano a dismisura. Non è un caso che, anticamente, il 13 Dicembre coincidesse con i festeggiamenti per il Solstizio d’Inverno, giorno più corto dell’ anno ma anche punto di partenza del nuovo ciclo di ascesa del Sole. Dodici mesi fa ho dedicato un approfondimento alle celebrazioni svedesi di Santa Lucia (rileggi qui l’articolo). Il magnetismo sprigionato da questa ricorrenza mi spinge oggi a soffermarmi sulla sua storia e sulle sue leggende in terra italica.

 

 

Dove a Lucia ci si riferisce sempre come a “Santa della Luce”, seppure con motivazioni leggermente diverse. Se nelle lande del Nord Europa il suo bagliore inaugura il primo baluginio di luminosità dell’ Inverno, in Italia viene associato alla vista (nello specifico, a leggende inerenti al sacrificio dei suoi occhi) e al chiarore delle candele che la accompagnava durante l’ operato svolto a sostegno del cristianesimo. Si narra infatti che portasse segretamente i viveri ai cristiani rifugiatisi nelle catacombe per sfuggire alla persecuzione di Diocleziano, e che per farsi strada nel buio li raggiungesse con una corona di candele fissata sul capo. L’ agiografia descrive Lucia come una giovane di nobili origini nata nel 283 d.C. a Siracusa. Profondamente cattolica, Lucia consacrò la sua verginità a Cristo sin da bambina. Era orfana di padre e viveva con la madre, Eutychia, malata da tempo. Dopo un pellegrinaggio al sepolcro di Sant’Agata, che Lucia invocò affinchè la aiutasse a guarire, la donna riacquistò la salute miracolosamente. Sant’ Agata apparve in sogno a Lucia esortandola ad onorare la fede a cui si era votata con tanta dedizione. La giovane donna, quindi, decise di dedicarsi alla carità: rinunciò al suo patrimonio devolvendolo ai bisognosi, dai quali si recava per portare aiuto, e supportava i cristiani perseguitati in seguito all’ editto che Diocleziano emise nel 303 d.C. . Tutto ciò provocò l’ira del promesso sposo di Lucia, un nobile pagano, che si vendicò denunciandola in quanto cristiana e la costrinse a sottoporsi a un processo conclusosi con il martirio della ragazza. Era il 13 Dicembre del 304 d.C.. Secondo alcune leggende, Lucia perse gli occhi quando fu martirizzata, altre raccontano che se li strappò dalle orbite spontaneamente. Altre ancora, che li offrì in sacrificio a un pretendente. Quando glieli donò, posati su un piattino, venne dotata per miracolo di occhi addirittura più splendenti. L’ innamorato, furibondo, pretese che glieli sacrificasse nuovamente, ma al suo rifiuto la uccise pugnalandola al cuore. Nacque in questo modo il culto di Santa Lucia come protettrice degli occhi e della vista. Luce, occhi e vista si uniscono dunque in un affascinante amalgama che rimanda a svariati miti pre-cristiani.

 

 

Alcuni di questi si ricollegano proprio alla tradizione scandinava: pare che ciò sia dovuto ai Longobardi, stanziatisi nel Nord Europa durante il I secolo a.C.. Quando invasero l’ Italia nel 568, diffusero il culto di Lussi (il cui nome significava “luce”), divinità che in Scandinavia regnava sugli spiriti dell’ Aldilà e sul “piccolo popolo” (gnomi, elfi, fate e folletti). Lussi dominava la notte del 13 Dicembre, la più lunga dell’ anno, chiamata “Lussinatt”, ed era solita volare sui tetti seguita da un bizzarro corteo di anime erranti. Puniva i bambini malvagi, che venivano trascinati su per il camino e condotti nel regno dei morti, e le famiglie che non si stavano preparando adeguatamente alla festa di Yule (il Solstizio d’Inverno). In quella notte fatata, si pensava anche che gli animali avessero facoltà di parola.

 

 

Ma Lussi non era l’unica figura ad appartenere a questo patrimonio mitico. Nella Roma Imperiale veniva venerata la dea Lucina, divinità del parto. Lucina, il cui nome (come quello di Lucia) risalirebbe a “Lux” e potrebbe essere tradotto con “colei che porta i bambini verso la luce”, era anche battezzata Candelifera poichè i parti si svolgevano a lume di candela. Un cero votivo, inoltre, veniva acceso dalle partorienti che invocavano la protezione della dea. La festa di Lucina, di conseguenza, era celebrata nel mese di Dicembre, il periodo del “Dies Natalis Solis Invicti”: quando il Sole, cioè, “rinasceva” e il giorno cominciava progressivamente ad allungarsi dal Solstizio d’Inverno in poi.

 

 

Innumerevoli fattori hanno contribuito a combinare la figura di Santa Lucia con quella di Lussi e della dea Lucina. Generalmente, si ritiene che l’ evangelizzazione cristiana in Scandinavia fu determinante nella propagazione della storia della Santa. Tra popoli che sperimentavano tanto spiccatamente il divario tra buio e luce, la martire di Siracusa che squarciava le tenebre con la sua luminosità divenne popolare al punto tale da dar origine a una festa – quella di Santa Lucia, appunto – celebrata sin dagli inizi del Medievo. Ciononostante, moltissimi altri elementi della tradizione pagana e pre-cristiana germanica ebbero il loro peso nel diffondere il culto di Lucia. Il tema della luce che trionfa sul buio, non a caso, è uno dei cardini portanti della ricorrenza di Yule, anticamente salutata con un tripudio di rituali, convivialità e banchetti. Diamo quindi il benvenuto alla giornata di Santa Lucia: la Festa della Luce.

 

 

Foto di Santa Lucia in Svezia (la 2 dall’ alto) di Claudia Gründer, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, attraverso Wikimedia Commons

 

La colazione di oggi: dolcetti al pan di zenzero, una magica spezia per un magico Natale

 

Parlare di colazioni natalizie senza citare lo zenzero sarebbe improponibile! Avete presente quei giocosi e golosissimi biscotti a forma di omini, alberi di Natale, renne, fiocchi di neve e quant’altro? O le incantevoli casette ornate di glassa che sembrano uscite dalla fiaba di “Hansel e Gretel”? Bene: lo zenzero è l’ ingrediente basilare di dolci diventati ormai l’ emblema del periodo che gravita attorno al 25 Dicembre. E non a torto: sono squisiti, leggeri ed emanano un aroma di spezie che li rende del tutto speciali. Gustarli a inizio giornata, credetemi, è davvero l’ optimum. Basti pensare che vengono preparati con un ricco impasto composto da zenzero in polvere, cannella, chiodi di garofano e noce moscata. Al tutto si aggiunge successivamente il miele oppure la melassa (quest’ ultima, soprattutto nel Nord Europa). Il risutato sono dolci dalla consistenza morbida al punto giusto: possono essere plasmati nelle forme più disparate e decorati con dosi massicce di Ghiaccia Reale, una glassa che si indurisce ad asciugatura ultimata. Di conseguenza, risultano una vera e propria delizia sia per il palato che per gli occhi. Alcuni, addirittura, li utilizzano per addobbare la casa e l’ albero di Natale! Ma privarsi del gusto di assaporarli sarebbe un vero peccato. Anche perchè lo zenzero è una spezia che abbonda di proprietà salutari, e viene considerato portentoso sin da tempi remotissimi.

 

 

Vanta virtù energizzanti, mantiene giovani e genera benefici per l’ intero organismo. E’ infatti un potente antiossidante, antibatterico oltre che antinfiammatorio, favorisce il benessere dello stomaco (azzerando la nausea e facilitando la digestione) e rafforza il sistema immunitario. Questa spezia appartenente alla specie delle Zingiberaceae – una pianta che proviene dall’ Estremo Oriente – possiede inoltre la facoltà di diminuire i livelli di glicemia e di colesterolo: un punto di forza non da poco. Durante l’ inverno è un autentico toccasana per i malanni stagionali. Nello specifico, lo zenzero è ricco di carboidrati, acqua e proteine, ma è anche una preziosa miniera di minerali quali il potassio, il fosforo, il calcio, il sodio, il ferro, lo zinco e il manganese.

 

 

Relativamente alla storia e alle leggende che la circondano, poi, la radice di zenzero è in grado di meravigliarci al pari dei dolci che con essa vengono preparati. Innanzitutto va detto che questa spezia, secoli orsono, veniva considerata magica. Il motivo principale risiedeva nel fatto che gli antichi popoli scoprirono che favoriva la conservazione dei cibi, ma non solo. Le sue virtù furono apprezzate fin da subito, quando Alessandro Magno la “trapiantò” in Europa dall’ Oriente. Greci e Romani ne decantavano le virtù: e se Confucio, nella lontana Cina, giudicava lo zenzero un ottimo “disintossicante” per la mente, pare che Dioscoride Pedanio, medico e botanico vissuto nella Roma imperiale di Nerone, lo ritenesse insuperabile per sedare i disturbi di stomaco. Secondo Pitagora, invece, lo zenzero era perfetto come antidoto al veleno dei serpenti. Tra il 1400 e il 1500, durante il regno di Enrico VIII, in Inghilterra si credeva che avesse il potere di allontanare le epidemie. Nel Medioevo, effettivamente, lo zenzero aveva acquisito un valore inestimabile sotto tutti i punti di vista. Per fare solo un paio di esempi, era richiestissimo in cucina e cominciò a guadagnarsi la fama di essere un efficace afrodisiaco.

 

 

Molto importante è citare la valenza magica attribuita allo zenzero sin dalla notte dei tempi. I maghi bruciavano la sua radice e utilizzavano il fumo per compiere svariati rituali, uno su tutti rompere incantesimi. Dalla spezia venivano estratti speciali profumi che avevano lo scopo di instaurare un contatto con l’aldilà. Si riteneva che tramite lo zenzero fosse possibile invocare la potenza del Sole, o del Dio Marte, ma non veniva unicamente utilizzato dagli “operatori dell’ occulto” (tra cui le streghe). Antiche credenze dotavano lo zenzero della capacità di esaudire i desideri (bastava masticarne la radice quel tanto che bastava per interiorizzare i suoi poteri), propiziare ricchezza e prosperità, rinvigorire l’energia, scongiurare i malanni, allontanare la malasorte, tornare a far ardere l’ amore sensuale in un rapporto di coppia…Amuleti allo zenzero proliferavano così come i medicinali che contenevano la sua radice, ritenuta altamente salutare.

 

 

In Inghilterra, gli omini al pan di zenzero che compaiono durante le festività (soprattutto a Natale, quando i simpatici biscotti assumono le forme dei tipici emblemi del periodo) vantano una lunga e prestigiosa storia. Pare che fu la Regina Elisabetta I Tudor a farli preparare, poichè amava offrirli agli autorevoli ospiti che invitava a corte. In seguito, intorno al 1875 circa, l’ omino al pan di zenzero (in inglese “gingerbread man”) diventò il protagonista di una fiaba/filastrocca famosissima nei paesi anglosassoni e in quelli del Nord Europa. La storiella viene tuttora narrata ai bambini in occasione del Natale, ma il fatto che sia stata tramandata oralmente e che abbia conosciuto un’ ampissima diffusione ha fatto sì che ne esistano innumerevoli versioni. 

 

 

Il 25 Dicembre del 1905 a Broadway venne addirittura inaugurato un musical, “The Gingerbread Man”, che rimase in cartellone per mesi sia a New York che a Chicago. Il biscotto più amato di Natale appare anche ne “La strada per Oz”, il libro che Lyman Frank Baum scrisse a mò di sequel de “Il meraviglioso mago di Oz” (la serie dei “Libri di Oz” contiene ben tredici volumi), ma il nostro eroe è comparso perfino sul grande schermo: riveste il ruolo di protagonista nel cortometraggio muto “John Dough and the Cherub” (1910) di Otis Turner e si fa notare tra i personaggi delle fiabe della saga di “Shrek” (che ha avuto inizio nel 2001).