Memento mori: la consapevolezza della morte per cogliere il senso della vita

 

“Memento mori”, “ricordati che devi morire”: è una frase latina che molti di noi hanno sentito pronunciare spesso. Una frase che può turbare, suonare vagamente inquietante. Che non lascia indifferenti. Eppure, contiene una profonda verità: la morte rappresenta l’inevitabile epilogo della vita umana e tutto risulta transitorio ed effimero, al suo cospetto. Ma come è nata questa locuzione? Le sue origini affondano nell’antica Roma. A quei tempi era in uso che un generale, dopo un importante trionfo bellico sui nemici, sfilasse lungo le vie dell’Urbe su un “cocchio aurato” mentre veniva acclamato e onorato dalla folla. Questa cerimonia veniva chiamata “Trionfo” e il primo a ricevere tale onore fu Romolo, che sconfisse il re dei Cenicensi. Per evitare che la boria, l’orgoglio e l’altezzosità si impossessassero del generale, a uno schiavo spettava il compito di bisbigliargli all’orecchio la frase “Respice post te. Hominem te memento” (“Guarda dietro a te. Ricordati che sei un uomo”): lo testimonia Tertulliano in uno dei suoi scritti. Era un modo per ricondurre le personalità del tempo ai reali valori della vita, per ricordare loro la fugacità di ogni cosa. Era anche un monito contro la superbia, le manie di grandezza, la propensione alla sopraffazione, considerate una mancanza di rispetto contro la Patria stessa oltre che nei confronti dei propri simili. Dell’esistenza vanno godute le piccole gioie, i sentimenti puri, suggeriva quella locuzione; la morte potrebbe arrivare da un giorno all’altro e nessuno sarebbe in grado di eluderla.

 

Ignacio de Ries, “L’albero della vita”, olio su tela, 1653

Artisticamente, il concetto del Momento Mori si diffuse a macchia d’olio in epoca medievale. Ai tempi della peste nera, che tra il 1346 e il 1353 decimò la popolazione europea, l’iconografia della morte era ampiamente presente. Pensiamo solo al tema della “Danza macabra”: affreschi che, raffigurando una danza tra gli scheletri (personificazioni della morte) e gli esponenti di tutte le categorie sociali del periodo (dall’agricoltore all’artigiano, dal principe al prelato, dall’imperatore al Papa), ribadivano la supremazia della morte sull’intero genere umano, nessuno escluso. Il cristianesimo, attraverso le rappresentazioni del Giudizio Universale ma anche grazie alle reliquie dei Santi e all’edificazione di numerose chiese, cattedrali e cimiteri, dava un’interpretazione in chiave sacra del Memento Mori: la morte è sovrana, vigila costantemente sul destino dell’uomo. Essendo la morte il fine ultimo dell’esistenza, la vita, che doveva essere virtuosa,  diventava uno “strumento” tramite il quale guadagnarsi il riposo eterno. I luoghi della sepoltura, architettonicamente, cominciarono a diventare sempre più elaborati e ad arricchirsi di decorazioni.

 

Cornelis de Bryer, “Allegory of Vanitas”, 1658

Negli anni della Controriforma, il Memento Mori fece da filo conduttore sia all’arte ecclesiastica cattolica che ai dipinti Barocchi. I simbolismi si moltiplicarono, inoltrandosi in un secolo opulento ed enfatico come lo fu  il Seicento: in pittura si affermarono le Vanitas e la natura morta, dove a elementi che incarnavano la vita venivano accostati gli emblemi tipici del Memento Mori. Ecco allora che a beni materiali quali i fiori, la frutta, i libri e gli strumenti musicali, l’artista affiancava un simbolico teschio. Non di rado appariva un orologio, oppure una clessidra, per sottolineare la nozione del “tempus fugit” (“il tempo fugge”). “Sed fugit interea fugit irreparabile tempus” (“Ma fugge intanto, fugge irreparabilmente il tempo”), scrisse Virgilio nelle Giorgiche: un invito al “carpe diem”, a cogliere l’attimo come antidoto contro l’inesorabile scorrere del tempo. Le Vanitas stupivano e, al tempo stesso, spronavano a riflettere sulla caducità dell’esistenza. Persino tra simboli di abbondanza come la frutta e la verdura rigogliose, suggerivano, si insinuavano gli indizi della morte. Nel Seicento, a causa della guerra dei trent’anni e del susseguirsi dei contagi dovuti alla peste, la familiarità con il trapasso era una costante.

 

Hyacinthe Rigaud, “Ritratto di Armand Jean Le Bouthillier de Rancé” (1626-1700 ca.)

I monaci dell’Ordine Trappista, fondato nel 1664 da Armand Jean Le Bouthillier de Rancé, si appropriarono del Memento Mori rendendolo il loro motto: “Fratello, ricordati che devi morire” era il saluto che si scambiavano abitualmente, mentre ognuno si impegnava a scavare ogni giorno quella che sarebbe diventata la sua fossa. La consapevolezza della morte, e quindi della fine della vita, non li abbandonava neppure un momento. Era una sorta di ammonimento, un modo per cogliere il significato dell’esistenza. Ma che accezione potrebbe avere, oggi, il concetto del Memento Mori? Nell’epoca contemporanea, almeno fino a qualche anno fa, la morte è stata considerata quasi un tabù: qualcosa da rimuovere, da abolire, mentre si rincorre la giovinezza eterna grazie alle conquiste della chirurgia estetica. Più di recente, le guerre e i conflitti che si combattono nel mondo hanno riportato la morte sotto i nostri occhi. Anche le star, sui social o durante le interviste, parlano apertamente dei mali incurabili che le affliggono: un gesto di condivisione con il proprio pubblico, oltre che un invito alla prevenzione. Alla luce di tutto ciò, che significato può assumere per voi, attualmente, il Memento Mori?

 

Caronte: perchè si chiama così e chi era il terribile traghettatore degli Inferi

 

Caronte: ma chi ha dato, e perchè, questo nome all’anticiclone africano più torrido di sempre? La tradizione di affibbiare determinati nomi ai fenomeni atmosferici, in Europa, ha avuto inizio negli anni Cinquanta all’Istituto di Metereologia dell’Università di Berlino. Nel 1954 fu compilata una lista di dieci nomi di persona da assegnare ai principali eventi meteo; curiosamente, le aree di alta pressione atmosferica (associate al bel tempo) vennero denominate con nomi maschili, mentre quelle di bassa pressione (associate al cattivo tempo) con nomi femminili. Ciò provocò malcontento, in particolare tra le femministe, pochè una simile prassi fu considerata discriminatoria in base al genere. Negli anni Novanta si stabilì quindi che, annualmente, si sarebbero alternati nomi maschili e femminili in ordine alfabetico a prescindere dal fenomeno atmosferico. In conclusione, a battezzare gli eventi metereologici nel Vecchio Continente è l’Istituto berlinese da 70 anni a questa parte. Vale ora la pena di ricordare chi fosse Caronte.

 

Caronte in un’incisione di Gustave Doré, che illustrò la “Divina Commedia” (1861-1868)

Caronte è una figura che ritroviamo sia nella mitologia greca che romana: si occupava di traghettare le anime dal mondo dei vivi all’Ade, il regno dei Morti, attraverso il fiume Stige (come riporta Virgilio nell’Eneide) o Acheronte (come riporta Dante nella Divina Commedia). Caronte, però, svolgeva le proprie mansioni solo a beneficio di chi era stato seppellito con una cerimonia funebre oppure era in grado di pagargli un obolo per il viaggio. Tutti coloro che erano privi di questi requisiti venivano condannati a errare nel Limbo, un bosco spettrale ammantato di nebbia, per l’eternità. Se le anime in questione, invece, potevano permettersi di salire sull’imbarcazione di Caronte, venivano traghettate da una sponda all’altra del fiume Acheronte. Il traghettatore infernale viene descritto da Dante come un uomo spaventoso: un vecchio con barba e capelli lunghi e candidi accompagnati da occhi cerchiati di fuoco. Non a caso Caronte è il figlio di Erebo, la personificazione dell’oscurità degli Inferi, e di Notte, la personificazione della notte della Terra. L’obolo, il pedaggio da pagare per la traghettatura, è un dettaglio molto importante. Sia nell’antica Grecia che nell’antica Roma, infatti, vigeva l’usanza di seppellire i cadaveri con una moneta sotto la lingua o due monete sugli occhi: per evitare che i defunti vagassero nell’Ade come anime in pena, i loro familiari li dotavano dell’obolo da versare a Caronte. In Grecia, questa tradizione è stata abolita solo in tempi recenti. Il demoniaco traghettatore dell’Ade, tuttavia, non ha trasportato sull’altra sponda del fiume soltanto morti; tra i vivi saliti sulla sua barca figurano personaggi mitologici del calibro di Enea, Persefone, Teseo, Ercole, Orfeo, Psyche. L’elenco si allunga, in seguito, con San Paolo e Dante Alighieri.

 

Caronte in un dipinto di Joachim Patinir (1520-1524 circa) conservato nel Museo del Prado

Caronte appare in due pietre miliari della letteratura quali l’Eneide di Virgilio e la Divina Commedia di Dante Alighieri, dove entra in scena nel Canto III dell’Inferno. Anche il commediografo greco Aristofane, intorno al V secolo a.C., lo incluse nella sua pièce Le Rane, facendogli fare una breve comparsa. Se Caronte è una figura mitologica, i Caronti sono realmente esistiti.  Ma chi erano, esattamente? Nell’antica Roma, veniva chiamato Caronte colui che dava il colpo di grazia al gladiatore in fin di vita che aveva perso il combattimento. Il Caronte aveva un aspetto inquietante: celava il volto con una maschera che raffigurava il suo omonimo mitologico, e per portare a termine il suo compito si serviva di una mazza. Dopo essersi accertato che il gladiatore avesse esalato l’ultimo respiro, il Caronte caricava il suo corpo su un carro e lo trasportava nel cosiddetto “spoliarum”. In questa macabra stanza dell’anfiteatro, il gladiatore veniva spogliato  e i Caronti procedevano a impossessarsi del suo sangue. Costoro, infatti, avevano una sorta di seconda attività: vendevano il sangue dei gladiatori, reputato un potente amuleto e un antidoto a mali come l’astenia e la mancanza di virilità. Nella vita quotidiana, per rendere ancora più lugubre la loro figura, i Caronti usavano tingersi la pelle di verdognolo per rievocare la caratteristica tonalità della decomposizione cadaverica. Ma non voglio concludere questo articolo con racconti così funerei. Passiamo allora al motivo per cui l’anticiclone africano è stato battezzato con il nome del terribile nocchiero degli Inferi. La ragione è molto semplice: al Caronte sub-tropicale spetta il compito di “traghettarci” nelle infuocate estati del cambiamento climatico.

Immagini di Caronte: Public Domain via Wikimedia Commons

 

Cottagecore: il ritorno dello stile bucolico

 

La Primavera è la stagione che più gli si addice: non è un caso che il Cottagecore, in questi giorni, sia tornato in grande stile. Il suo ideale estetico esalta la vita rurale, i cari vecchi tempi del fatto a mano contrapposti a quelli della modernità tecnologica. La campagna, in special modo quella inglese, costellata dai suggestivi cottage con tetto di paglia, è lo scenario Cottagecore (e ce lo dice persino il nome) per antonomasia. In campagna si vive a stretto contatto con la natura, assaporando atmosfere idilliache. Si allevano animali, la frutta e la verdura si raccolgono nel proprio orto, si prepara il pane in casa. Il verde si alterna a un tripudio di fiori dai colori incredibili, valorizzando luoghi che sembrano pensati apposta per un picnic. E poi c’è la moda: lo stile Cottagecore è fatto di grandi cappelli di paglia, abiti impalpabili, stampe con pattern floreali, balze, volant e maniche a palloncino. Tutto, dall’ abbigliamento al giardinaggio, è all’insegna della sostenibilità. La lettura è un hobby ampiamente praticato negli ampi spazi aperti; vengono privilegiati libri antichi, preferibilmente volumi di fiabe o trattati di botanica. Culturalmente, le radici del Cottagecore affondano nella poesia pastorale di Teocrito e nelle Bucoliche di Virgilio: opere che inneggiano a una ruralità sognante e fortemente idealizzata. In campagna è possibile evadere dal caos cittadino, apprezzare i vantaggi di una vita all’insegna della semplicità, riscoprire la natura e le sue meraviglie. Durante il Rinascimento, anche autori come il Petrarca, Boccaccio e William Shakespeare si dedicarono al tema bucolico. Alla base c’era l’Arcadia della Grecia antica, il “locus amoenus” per eccellenza della letteratura classica e moderna. Tornando al 2024, ho voluto dedicare una photostory al Cottagecore e alle sue atmosfere: scopritele attraverso le immagini di questo post.

 

Foto via Unsplash

 

Il luogo

 

Il cielo stellato di Dante. Le celebri stelle che menziona alla fine di ogni cantica della Divina Commedia. Ci avete fatto caso? L’ Inferno, il Purgatorio e il Paradiso non si concludono con una terzina, bensì con una frase in cui il Sommo Poeta nomina le stelle. In molti si sono chiesti il significato di questa citazione. A me, intuitivamente, sembra l’ indizio di un legame tra il soprannaturale e la realtà tangibile che va assumendo, di volta in volta, accezioni differenti. Analizzando le frasi in modo più approfondito, possiamo riflettere sulla valenza di quelle stelle. Così, ad esempio, si conclude l’ Inferno: “E quindi uscimmo a riveder le stelle” (Canto 34, 139). Uscendo dalla voragine infernale, regno della miseria morale e della disperazione, Dante rivolge lo sguardo alle stelle. Lui e Virgilio si lasciano finalmente alle spalle quel decadente luogo sprofondato nelle viscere della Terra. La vista del cielo infinito e delle sue stelle, splendenti di luminosità, sottolinea il ritorno alla natura umana e l’ anelito alla luce dei due protagonisti. Una luce che faccia svanire nell’ immensità dell’ Universo persino il ricordo delle tenebre da cui provengono. Dopo aver viaggiato nel Purgatorio, Dante termina il suo percorso dicendosi “Puro e disposto a salir le stelle” (Canto 33, 144). Nel Purgatorio si è purificato, si è redento, l’ amore ha disperso definitivamente il male che albergava in lui. Il Sommo Poeta è pronto per raggiungere una dimensione superiore, quella del Paradiso. Quest’ ultima cantica si chiude con la frase “l’ Amor che move il sole e l’ altre stelle” (Canto 33, 145). Virgilio, impersonificazione della Ragione, scompare sulla soglia del Paradiso Terrestre e al suo posto appare Beatrice: la donna amata da Dante incarna la Grazia della fede, una figura dotata di forti connotazioni simboliche. Per avvicinarsi a Dio, l’ Uomo non necessita della sola ragione; sono il potere dell’ intuito e la ragione divina a farlo giungere a lui. Quando il Sommo Poeta arriva a Dio, perviene alla piena consapevolezza. Contemplandolo ritrova se stesso, riapproda al “qui e ora”. Capisce che è l’ Amore il motore, il centro dell’ Universo materiale e spirituale. Dopo aver esplorato le stelle dantesche, vi ricordo l’ imperdibile appuntamento di questa sera: “Viaggio musicale verso i luoghi di Dante”, il concerto-documentario in cui, tramite un connubio di suggestive location, musiche incredibili e riprese spettacolari, Raffaello Bellavista e Serena Gentilini vi invitano alla scoperta della Divina Commedia in occasione del 700simo dalla morte di Dante Alighieri.  Acquistate i biglietti su Ticketmaster e collegatevi alla piattaforma di LIVE ALL alle ore 20 per assistere a questo straordinario evento! (qui il link all’ intervista-anteprima di VALIUM con Raffaello Bellavista)