Yule, il Solstizio d’Inverno degli antichi Celti, e le sue tradizioni

 

Le giornate sono brevi
Il sole una scintilla
stesa sottile tra
buio e buio.
(John Updike)

 

E’ arrivato l’Inverno. E l’ha fatto silenziosamente, mentre tutti dormivano: erano le 4,27 di stamattina quando è entrato ufficialmente. Oggi è il giorno più corto dell’anno, quello che i popoli germanici della tradizione pre-cristiana chiamavano Yule. Le vibrazioni cosmiche sono potenti, quasi palpabili, come per renderci partecipi di questo importante momento di trasformazione: l’oscurità è al suo apice, ma già da domani comincerà gradualmente a lasciar spazio alla luce. L’atmosfera sospesa ci invita ad assaporare attimo per attimo l’arrivo dell’Inverno astronomico. Gli antichi popoli hanno sempre celebrato la nascita del “nuovo Sole”: basti pensare ai romani e al Dies Natalis Solis Invicti, “invitto” sulle tenebre imperanti, o alla ricorrenza celtica di Yule, dove si festeggiava il Sole Bambino. Sia il Dies Natalis Solis Invicti che Yule cadevano in un periodo compreso tra il 22 e il 25 Dicembre (il calendario Giuliano fissava il Solstizio proprio in questa data), quando il Sole, nell’emisfero Nord, sembra fermarsi nel bel mezzo del cielo. “Solstizio” deriva infatti dal latino “Solstitium”, un termine che unisce “sol” (sole) e “sistere” (fermarsi). Dal punto di vista astronomico significa che il Sole, nel suo moto apparente lungo l’ellittica, raggiunge il punto di declinazione minima. Ma anche se il Solstizio sancisce la nostra massima distanza dall’astro infuocato, possiamo assaporare la magia di questi momenti nella consapevolezza della sua rinascita. Dopo la notte più lunga dell’anno il Sole tornerà a sorgere e ci regalerà, giorno dopo giorno, dei minuti di luce in più.

 

 

Tornando a Yule, la festa celtica del Solstizio di cui VALIUM ha già parlato tante volte (rileggi qui uno degli articoli), è interessante esaminare alcuni rituali giunti fino ai giorni nostri che, molto spesso, fanno parte delle tradizioni del Natale. L’albero solstiziale, ad esempio, era un abete (sempreverde simbolo di immortalità rispetto al gelo invernale) che veniva decorato con un tripudio di campanelli e mini rappresentazioni del Sole. In cima all’albero, a mò di puntale, svettava una stella a cinque punte, emblema dei cinque elementi della natura. L’albero veniva allestito rigorosamente all’interno delle case per offrire un rifugio agli spiriti che popolavano la foresta. Il ceppo di Yule, anche questo un argomento trattato approfonditamente da VALIUM (rileggi qui l’articolo che gli ho dedicato), veniva acceso a Yule utilizzando un grosso ciocco di quercia. Le famiglie lo bruciavano nel camino della propria casa per allontanare le entità maligne che si nascondevano nell’oscurità. Prima di compiere questo rito, però, al ceppo venivano legati i rametti di alcune piante dalla valenza simbolica: l’edera, associata al dio del Solstizio; l’agrifoglio, che incarnava l’anno che volgeva al termine; il tasso, emblema della morte dell’anno; la betulla, rappresentazione del nuovo inizio e delle nuove vite. I rametti dovevano essere annodati al ceppo con un nastro rigorosamente rosso, e il ceppo si accendeva usando il tizzo che risaliva all’anno prima. Il ceppo di Yule veniva lasciato ardere l’intera notte e si riaccendeva la sera dopo, un rituale che andava compiuto per dodici giorni di seguito. Infine, le ceneri si spargevano in giardino per proteggere le piante (allontanano i parassiti) e scongiurare la negatività.

 

 

Il ramo dei desideri era un’usanza che consisteva nell’appendere un ramo di grandi dimensioni nell’atrio della propria dimora. Ciò veniva fatto nove giorni prima di Yule dopo aver effettuato ulteriori operazioni: il ramo doveva essere tinto di vernice dorata e decorato con nastri di carta rossa. Tutte le persone che avrebbero varcato la soglia di casa potevano esprimere un desiderio trascrivendolo sui nastrini di carta, che poi venivano accuratamente ripiegati e legati al ramo. La sera del Solstizio, una volta acceso il focolare, si lasciava ardere anche il ramo dei desideri: il fumo avrebbe raggiunto gli dei, che forse li avrebbero esauditi.

 

 

I Celti consideravano il vischio di quercia una pianta sacra, tant’è che aveva la facoltà di raccoglierlo solo il Sommo Sacerdote servendosi di un falcetto d’oro. I Druidi, successivamente, lo immergevano in una bacinella dorata ricolma d’acqua che distribuivano al popolo: al vischio, magico in quanto cresceva su rami e tronchi di molti alberi pur essendo privo di radici ed emblema di immortalità in quanto sempreverde, si attribuivano portentose proprietà guaritrici. La quercia, per i Celti, era un simbolo della presenza divina sulla terra. E sulla quercia si scagliava frequentemente la folgore, il che collimava con la credenza che il vischio scendesse dal cielo insieme ai lampi, emblemi  della discesa sul suolo terrestre delle divinità. Alle sue virtù guaritrici si aggiungevano quelle propiziatorie, associate alla fertilità (dato il suo aspetto simile allo sperma) e al buon auspicio. Non è un caso che il vischio sia onnipresente a tutt’oggi tra le decorazioni natalizie: attirerebbe l’abbondanza e la fecondità, prova ne è il fatto che gli innamorati usano baciarsi sotto il vischio in segno beneaugurale.

 

 

L’agrifoglio, per i Celti d’Irlanda, si legava al Solstizio poichè le ghirlande che venivano realizzate con questa pianta erano un’emblema della ruota dell’anno. Nell’ “isola di smeraldo”, a Natale, vige tuttora l’usanza di decorare le case con molteplici ghirlande di agrifoglio; la tradizione vuole che si rompano e si lancino all’esterno della casa dopo le feste per rappresentare il termine delle tenebre e la rinascita della luce.

 

 

Auguro un Buon Solstizio d’Inverno a tutti e mi raccomando, non dimenticate di accendere molte candele in casa: la fiamma che balugina nel buio è un omaggio alla luce che rinasce, a poco a poco, nell’oscurità.

 

 

Foto via Pexels e Unsplash

 

Il Ceppo di Yule, un’ antica e suggestiva tradizione del Solstizio d’Inverno

 

” Solstizio d’inverno.
Sembra che il mondo voglia dare le spalle alla luce.
I colori nascondono il loro volto.
La terra coltiva l’ombra
come se fosse l’unica cosa che cresce.”
(Fabrizio Caramagna)

 

21 Dicembre, Solstizio d’Inverno: è il giorno più corto dell’ anno. Le ore di buio trionfano, fagocitando quelle di luce. Il Sole, giunto al punto di declinazione minima nel suo moto apparente lungo l’eclittica, sembra arrestarsi (non è un caso che il termine “Solstizio”, in latino “Solstitium”, derivi da “sol”, sole, e “sistere”, ovvero fermarsi). L’atmosfera è sospesa, la natura e il cosmo partecipano silenziosamente a questo importante momento di transizione. Perchè quando l’oscurità raggiungerà il suo apice, la luce ricomincerà ad avanzare a poco a poco. E il Sole rinascerà, si rinnoverà, tornerà a regnare sulla notte. Nell’ era pre-cristiana, i popoli germanici battezzarono “Yule” il giorno del Solstizio: “Hjòl” designava, in norreno, la ruota dell’ anno, che si trova nel suo punto più basso quando l’ Inverno entra ufficialmente. “Hjòl” si tramutò poi nel norreno Jòl e nel tedesco Jul. Tuttora è possibile rinvenire questi termini nelle lingue scandinave, dove indicano sia il Solstizio d’Inverno che il Natale“Jul” in svedese e danese, “Jol” in norvegese, “Joulu” in finlandese (con il significato, però, esclusivamente di “Natale”).

 

 

In un’ epoca in cui la sopravvivenza era legata a doppio filo ai cicli della natura, è facile intuire l’importanza che rivestiva Yule. La resurrezione della luce era un evento ricco di magia, di rituali associati a una simbologia antichissima. Per approfondire questi aspetti, vi rimando all’ articolo “Yule” che ho pubblicato su VALIUM l’anno scorso (rileggilo qui). Oggi ci concentreremo invece su un particolarissimo cerimoniale associato al Solstizio, il Ceppo di Yule o Yule Log.

 

 

I popoli nordici dell’ età pre-cristiana solevano celebrare il Solstizio d’Inverno con  un grosso tronco beneaugurale. La notte più lunga dell’ anno il ceppo si adornava di nastri, bacche e ramoscelli d’edera, poi veniva benedetto e fatto ardere per i dodici giorni dei festeggiamenti solstiziali. Secondo la tradizione, il fuoco precedente doveva essere spento dal capofamiglia e per riaccenderlo si doveva utilizzare un tizzone del tronco bruciato durante il Solstizio dell’ anno prima. Questo rituale aveva una potente valenza emblematica: il fuoco e il suo calore simboleggiavano la nuova luce, l’ardore del Sole che quella notte rinasceva e sarebbe tornato a splendere progressivamente. Ma il fuoco era anche una metafora della vita stessa. Nelle gelide lande del Nord Europa, i focolari erano sempre accesi; il caminetto riscaldava e risultava essenziale per il nutrimento, dal momento che il fuoco si utilizzava per cucinare. Il Ceppo di Yule, dunque, era un emblema di buon auspicio associato alla luce, alla rinascita della natura, alla prosperità: i fondamenti della sopravvivenza.

 

 

Quando il Cristianesimo sostituì le celebrazioni natalizie a quelle solstiziali, lo Yule Log divenne una costante della vigilia di Natale. Le prime testimonianze relative a questa tradizione risalgono alla Germania del XII secolo: un documento del 1184 cita un ceppo di Natale che, acceso la notte di vigilia, veniva fatto bruciare fino all’ Epifania. Alla ricerca del legno adatto si dedicavano giornate intere. I tronchi dovevano essere di albero secco, idonei alla combustione, e non essere stati eletti a tana da qualche animale. In Scozia, gli antichi Celti erano soliti scolpire una figura femminile nel ceppo: raffigurava la Cailleach Nollag, una dea dell’ Inverno, il cui aspetto sinistro veniva stemperato dalle fiamme. Era un emblema della ciclicità della natura; dopo la notte del Solstizio, ogni ora di luce in più equivaleva a un passo verso la Primavera. Con l’avvento del Cristianesimo, la valenza simbolica dello Yule Log mutò completamente: il ceppo aveva la funzione di scaldare Gesù Bambino, mentre il fuoco incarnava l’emblema della Redenzione.

 

 

Dalla Germania, la tradizione dello Yule Log si diffuse in Gran Bretagna, nella penisola scandinava, in tutta la zona alpina, in Spagna, nei paesi dei Balcani e, last but not least, in regioni italiane quali la Lombardia e la Toscana. Successivamente, l’usanza sbarcò persino negli Stati Uniti. Il cerimoniale era simile ovunque: la vigilia di Natale, il ceppo veniva decorato (bacche, pigne, aghi di pino, vischio e piante rampicanti erano gli elementi più usati) e bruciato nel camino con una solenne cerimonia beneaugurale. Lo Yule Log si lasciava ardere per dodici notti di fila, fino all’ Epifania, e i suoi rimasugli, considerati magici, venivano conservati con cura. Ad essi si attribuivano benefici per la fecondità femminile, il raccolto, gli animali da allevamento, il benessere fisico, ed era d’uso utilizzarli per accendere il ceppo del Natale successivo. Ogni paese ha donato la propria impronta a questo rituale. Anche la pianta scelta per il ceppo variava da nazione a nazione: in Gran Bretagna, dove l’ usanza dello Yule Log venne adottata massicciamente, si preferivano la quercia, il pino, la betulla; i serbi optavano per la quercia, mentre i francesi puntavano sugli alberi da frutto.

 

 

Tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo, la tradizione del Ceppo di Natale scomparve pressochè totalmente. L’ avvento delle stufe e il minor numero di camini presenti nelle case dell’ epoca fece sì che l’usanza, a poco a poco, si perdesse. Lo Yule Log, tuttavia, continua a esistere sotto un’altra forma: il tronchetto di Natale, uno dei dolci più golosi delle feste. Si tratta di un tronchetto di Pan di Spagna ricoperto di cioccolato e farcito con svariate creme. L’ aspetto è quello di un ceppo ornato di molteplici decorazioni: provate a prepararlo in casa per un Solstizio all’ insegna del gusto. Oppure, ripristinate la tradizione dello Yule Log. Procuratevi un ceppo su cui praticherete dei fori per inserirvi alcune candele. I colori di queste ultime potranno essere tipicamente natalizi, come ad esempio il rosso, il verde, l’oro. Decorate il ceppo con piante, fiori e bacche stagionali. Le candele andranno fatte bruciare durante la notte di Yule: è una variante contemporanea del Ceppo di Natale, ma risulta sempre di grand’effetto.

 

 

Foto del Ceppo di Yule con candele di Jeremy Fulton via Flickr, CC BY-NC-ND 2.0

 

Da Lussi a Santa Lucia: il 13 Dicembre in Scandinavia tra Paganesimo e Cristianesimo

 

“Santa Lucia, il giorno più corto che ci sia.”
(Proverbio)

 

Oggi festeggiamo Santa Lucia, una delle ricorrenze più importanti dell’Avvento. VALIUM ne ha parlato spesso, focalizzando l’attenzione sulla sua celebrazione in Svezia e sulla storia della “Santa della Luce” (clicca sui due link per rileggere gli articoli). In questo post, invece, approfondirò la matrice pagana della festa. Le location sono ancora una volta le magiche, innevate lande del Nord Europa: in Scandinavia, anticamente, la notte del 13 Dicembre era dedicata a una suggestiva festività dell’ era pre-cristiana. Innanzitutto, va precisato lo scenario in cui tale data si andava a collocare. Per i popoli nordici, Dicembre è il mese più buio dell’anno; l’oscurità fagocita le distese di fitti boschi, i campi, i laghi, i villaggi. Le forme si fanno indistinte. Questo periodo, molti secoli orsono,  veniva identificato con il caos primordiale:  l’ indefinito, le tenebre antecedenti alla creazione. Quando arrivava l’ Inverno, era come se si regredisse a quella condizione. La notte del 13 Dicembre, con il suo buio interminabile, rivestiva una precisa valenza simbolica. Era la più lunga, e quindi la più oscura notte dell’ anno; poteva nascondere insidie e pericoli. In Scandinavia venne battezzata “Lussinatt” o “Langnatt”, ovvero “lunga notte”, e si riteneva che Lussi, una divinità pagana il cui nome significa “luce” poichè era considerata la “Madre del Sole Nuovo”, regnasse su di essa.

 

 

Lussi era anche la madre degli spiriti dell’ Altro Mondo, e la notte del 13 Dicembre soleva volare nelle tenebre con il suo corteo di gnomi, fate, elfi e troll: un seguito sinistro e fantasmatico denominato Lussiferda. Questo particolare connette la figura di Lussi con il mito della Oskoreia, la “Caccia Selvaggia” capeggiata da Odino; imbattersi in una simile processione soprannaturale non era certo di buon auspicio, si rischiava di essere rapiti e trascinati nel Regno dei Morti. Ma anche Lussi e il suo corteo non scherzavano. Quando arrivava la Lussinatt, sorvolavano le case castigando tutti coloro che non si comportavano a dovere. Lussi si calava nei camini per prelevare i bambini malvagi e portarli nel Regno dei Morti, e puniva le famiglie che non adempivano ai preparativi per la festa di Yule. La notte del 13 Dicembre, inoltre, anche gli animali erano dotati del dono della favella: si riteneva che conversassero tra loro e commentassero come venivano trattati dai rispettivi padroni. Ogni istante della Lussinatt, insomma, era intriso di magia. Il motivo è molto semplice. Nel mese di Yule, quando il buio imperversava, cadevano le barriere tra il mondo dei vivi e quello degli spiriti e delle creature fatate. Un numero illimitato di ombre poteva celarsi nell’ oscurità; incantesimi e pericoli erano in agguato dietro l’angolo.

 

 

Potremmo considerare Lussi la controparte oscura di Santa Lucia. La divinità pagana portava un nome che inneggiava alla luce, eppure regnava sulla notte più lunga dell’ anno; era rappresentata come una vecchia, a metà tra la strega e la maga, ma aveva il compito di concepire l’astro solare, che immergeva in un caldaio e rigenerava grazie al bollore delle fiamme. Queste ambivalenze, in realtà, appaiono frequentemente nel Paganesimo. In quanto Madre del Sole Nuovo, Lussi era anch’essa, come Lucia, una “portatrice di luce”: il suo nome aveva una valenza potentemente simbolica.

 

 

Ma quando avvenne, esattamente, la transizione dal culto di Lussi a quello di Santa Lucia? In Scandinavia il passaggio non fu così rapido. Il Cristianesimo cominciò a diffondersi nell’ anno 1000 in quelle lande nordiche, e tuttavia svariate testimonianze dimostrano che, nel XIII secolo, la figura di Lussi era ancora saldamente ancorata nell’ immaginario collettivo. La venerazione di Santa Lucia, e i riti che a tutt’oggi la contraddistinguono, sono fenomeni che in Svezia, Danimarca, Finlandia e Norvegia si affermarono dalla fine del 1800 in poi (in Norvegia, il culto di Lucia di Siracusa prese piede addirittura dopo il secondo conflitto mondiale): prova ne è il fatto che “Santa Lucia”, la celebre canzone napoletana che si accompagna alle celebrazioni nordiche, fu scritta da Teodoro Cottrau nel 1849. Solo nel XX secolo la devozione a Lucia, portatrice di luce e protettrice della vista, si consolidò nella penisola scandinava. Fino a quel momento, soprattutto nelle zone rurali, le tracce delle antiche tradizioni pagane non erano mai scomparse del tutto.

 

 

Lussi e Lucia: due figure agli antipodi accomunate, però, da più d’una caratteristica. La prima è l’essere entrambe “portatrici di luce”. Lussi in quanto artefice del rinnovamento del Sole, Lucia per il suo nome e poichè nel suo sguardo vibrava la luce spirituale del cambiamento e della speranza. Non è un caso che, secondo la leggenda, le furono cavati gli occhi. Ma gli elementi che Lussi e Lucia hanno in comune sono anche altri. Uno di questi è venato di accenti vagamente sinistri, e sembra riportare al clima oscuro della Lussinatt: gli antichi popoli sostenevano che guardare negli occhi le divinità femminili più “tenebrose” (e tra queste rientrava Lussi) portava a conseguenze terribili e irreversibili. Curiosamente, tutto ciò riporta a una credenza relativa a Santa Lucia. Ai bambini si raccomandava di non guardarla, quando passava di casa in casa per consegnare i doni, perchè avrebbe gettato cenere nei loro occhi accecandoli temporaneamente.

 

 

Gli stessi occhi che Lucia conserva in un piattino sono un’ immagine inquietante. Eppure, al tempo stesso, hanno una valenza positiva: emblema di luce, gli occhi giacciono inanimi così come il Sole soccombe all’ oscurità dell’ Inverno. Ma la luce e il Sole rinasceranno a Yule, il giorno del Solstizio, quando il buio comincerà ad arretrare progressivamente. In omaggio al Sole che rinasce, gli svedesi hanno ideato un dessert tipico della festa di Santa Lucia: i Lussekatter, ribattezzati in Italia “Gatti di Santa Lucia”. Si tratta di dolcetti soffici e di un giallo luminoso (come lo è, appunto, il Sole) ottenuto con lo zafferano. La loro forma ad “S” rimanda, non a caso, alla rinascita ciclica del Sole, anche se da molti viene associata alla coda del gatto protagonista di un’antica leggenda sui Lussekatter.

 

 

L’ illustrazione è dell’ artista svedese Gerda Tirén

 

La magia della Luna Fredda, l’ultimo plenilunio dell’ anno

 

Oggi il cielo ci regala uno spettacolo imperdibile: la Luna Fredda, l’ultimo plenilunio di Dicembre. Sarà una luna piena luminosissima, quasi abbagliante, nettamente distinguibile. Per 24 ore splenderà incontrastata nella volta celeste, dando vita a uno scenario di pura magia. Il suo fulgore sarà tale da neutralizzare persino quello di Marte. Il “pianeta rosso”, che attualmente si trova nella Costellazione del Toro, risulterà osservabile per tutto il dodicesimo mese dell’ anno. In questo periodo raggiunge la minima distanza dal nostro pianeta (a dispetto di quanto si possa pensare, tra Marte e il globo terrestre intercorrono “solo” 81,5 milioni di chilometri) e l’apice della luminescenza, ma stamattina è accaduto qualcosa di molto particolare: la Luna Fredda, piena dalle 23.08 del 7 Dicembre, ha occultato Marte con i suoi bagliori mentre quest’ ultimo si trovava in opposizione al Sole.Il fenomeno ha avuto inizio tra le 6.09 e le 6.21, quando il satellite e il pianeta si sono situati in prossimità l’uno dell’altro. I primi albori hanno permesso di osservare l’occultazione con discreta chiarezza, finchè, intorno alle 7.10, Marte ha fatto capolino dalla Luna Fredda per tornare visibile di lì a poco.

 

 

“Occultamento” del pianeta rosso a parte, la Luna Fredda è imperdibile per svariati motivi. L’ ultimo plenilunio dell’ anno, infatti, si manifesta durante una delle notti interminabili che precedono il Solstizio d’Inverno: ciò significa che, in confronto alle altre lune piene, sovrasta l’orizzonte per un notevole lasso di tempo. Si ha quindi l’ impressione che la sua luminosità sia sfolgorante e che troneggi nel cielo pressochè incessantemente. Un’ ulteriore particolarità della Luna Fredda riguarda il suo nome. A battezzarla con questo appellativo furono i nativi americani, che la ricollegarono così al primo mese dell’ Inverno. Il loro auspicio era che l’ ultima luna piena dell’ anno risplendesse dal tramonto all’ alba, per chiudere un ciclo in bellezza e propiziarsi la fortuna nei dodici mesi successivi. Altri nomi che identificavano la Luna Fredda erano “Luna della Notte Lunga”, perchè brillava nelle notti prossime al Solstizio, “Luna dello Sgombero”, perchè si riteneva che spazzasse via gli influssi negativi, e “Luna della Brina Lucente”, in quanto il chiarore lunare accendeva i bagliori della brina. Anche se vi siete persi il fenomeno dell’ occultazione, avete tutto il tempo per ammirare la Luna Fredda: puntate gli occhi verso il cielo, stanotte, e lasciatevi ammaliare dal plenilunio che preannuncia le incantate atmosfere di Yule.

 

 

Fate

 

“Le fate tengono i loro grandiosi balli all’aria aperta, in quelli che vengono chiamati Cerchi delle Fate. Dopo, per settimane, è possibile vedere i cerchi impressi sull’erba.”
(James Matthew Barrie)

 

Manca poco più di un mese a Yule, il Solstizio d’Inverno, e qualcosa di fatato aleggia nell’ aria. Il freddo è pungente, il cielo si fa maestoso: tingendosi di nuance che alternano il grigio perla, il grigio piombo e il rosso del tramonto, instaura una perfetta armonia con la solennità dell’universo. Il fuoco crepita nel camino, il fumo svolazza dai comignoli sospinto da folate di vento. Nel bosco, dove l’odore della terra umida si mescola a quello della resina e degli aghi delle conifere, vagano presenze affascinanti e misteriose. Sono le Fate, creature del “Piccolo Popolo” (“Sidhe” in lingua gaelica) che include anche i Folletti, gli Elfi, gli Gnomi e i Goblin. Il termine latino “fatae”, in italiano antico “dame fatate”, designava coloro che dirigono il Fato; da esso derivarono il francese “faie” e l’ inglese “fairy”, che alcuni fanno però risalire a “faierie”, vale a dire “incantamento”. Le Fate usano i propri poteri a scopo benefico, si dice che proteggano i bambini. Sono magnanime, ma al tempo stesso vanitose ed egocentriche. La permalosità che le contraddistingue può spingerle a gesti inconsulti e a tramutare le benedizioni che elargiscono in terribili maledizioni. Fisicamente hanno sembianze femminili e lineamenti delicati, pressochè perfetti. Tuttavia, sono in grado di trasformarsi e di assumere qualsiasi aspetto. La leggenda vuole che dimorino in splendidi palazzi sotterranei e che qui permangano persino dopo la loro morte, sebbene vantino una vita secolare. Sono proprio le Fate ad accompagnarci lungo il percorso verso Yule, un tragitto costellato di potenti vibrazioni cosmiche e di ammalianti incantesimi: seguitele in questa nuova photostory (da notare il motivo ricorrente del fuoco, emblema di rigenerazione, purificazione e metamorfosi).

 

 

Foto via Unsplash e Pixabay

 

Yule

Amo la neve, la neve e tutte le forme di gelo radioso.
(Percy Bysshe Shelley)

 

Oggi, 21 Dicembre, diamo il benvenuto all’ Inverno. Il Solstizio si verificherà alle 16.58 in punto, esattamente 17 minuti dopo il calar del sole. Sarà la giornata più corta dell’ anno: in Italia avremo una media di 8-9 ore di luce contro le rimanenti di buio pesto. Durante il Solstizio d’Inverno la potenza dell’ armonia cosmica è nettamente percepibile, così come le vibrazioni che emana. Lo spazio e il tempo sembrano cristallizzarsi, sospendersi in attesa di una metamorfosi. L’ oscurità prende il sopravvento, occultando sotto il suo manto la luminosità solare. Una frase dello scrittore statunitense John Updike descrive questo fenomeno alla perfezione: “Le giornate sono brevi. Il sole una scintilla sospesa tra buio e buio.” Siamo a Yule: così veniva chiamato il Solstizio d’Inverno dai popoli germanici dell’ era precristiana. La magia aleggia nell’ aria, rievocando la suggestività di una ricorrenza celebratissima nelle lande del Nord Europa. Si pensa che il nome Yule derivi da un termine norreno, Hjòl, ovvero ruota, poichè il Solstizio d’Inverno coincideva con il punto più basso in cui si trovava la ruota dell’ anno prima di iniziare la sua risalita. Ma Jul è anche una radice scandinava che ha il significato di “festa, banchetto”, mentre la mitologia norrena chiama “joln” gli dei e Jolnir (il Signore degli dei) è uno dei molteplici nomi di Odino. La rilevanza di Yule risiedeva nel fatto che il Sole, quel giorno, cominciava a rinascere a poco a poco. Gli antichi popoli festeggiavano tramite rituali e tradizioni la sua rigenerazione: falò, candele e fuochi ricorrevano in riti finalizzati a incoraggiare l’ ascesa del Sole. A Yule il Vecchio Sole moriva, e dalle viscere della Madre Terra nasceva il Sole Bambino. L’ importanza conferita al concetto di “ciclicità” è palese, dato che all’ epoca vigeva un rapporto di stretta dipendenza tra l’ esistenza umana e i cicli naturali.  Morte, metamorfosi e rinascita diventavano un tutt’uno, il giorno del Solstizio. Non è un caso che la pianta simbolo di Yule fosse il vischio: il sempreverde sacro dei Druidi rimandava alla vita grazie alle sue bacche bianche, lucenti, simili allo sperma. Narrava una leggenda che fosse scaturito da un fulmine, di conseguenza veniva ricondotto al divino. Il vischio quercino possedeva una valenza emblematica ancora più potente, giacchè all’ immortalità dell’ albero secolare si coniugava l’ immediatezza, l’ “hic et nunc” della rigenerazione.

 

Ma anche l’agrifoglio ricopriva un ruolo fondamentale, rispetto ai miti di Yule. La lotta tra due poli opposti (Buio e Luce, Inverno e Estate, Vita e Morte) costituiva il perno della mitologia e delle leggende antiche. L’ agrifoglio, in questo senso, simboleggiava la parte più buia e più gelida dell’ anno, la fase calante dell’ Hjòl. All’ agrifoglio era associato il “vecchio”: il Re Agrifoglio, che lo impersonificava, veniva raffigurato come un anziano dalla barba bianca e dal sorriso perenne. Il Re Quercia, emblema della fase crescente della ruota dell’ anno, quella in cui le giornate si allungano e il Sole torna a splendere, era invece collegato al “nuovo”. Si diceva che i due Re si affrontasero in occasione dei Solstizi, e che l’ uno avesse la meglio sull’ altro a fasi alterne. Il Solstizio d’ Inverno vedeva il trionfo del Re Quercia sul Re Agrifoglio, favorendo quindi la rinascita graduale della luce; durante il Solstizio d’Estate era il Re Agrifoglio a vincere la lotta: ciò determinava la ricomparsa dell’ oscurità e l’ assopimento della Natura. E’ essenziale sottolineare come le due figure fossero strettamente interconnesse, l’ una non avrebbe mai potuto esistere senza l’altra. Le forze del Re Agrifoglio e del Re Quercia si fronteggiavano in un equilibrio perfetto, così come perfettamente armonico era il trionfo del primo sul secondo e viceversa. La lotta tra i due era fondamentale al fine di garantire la metamorfosi, la ciclicità, la trasformazione: punti cardine dei Solstizi e soprattutto di Yule, a cui si associa il fascino del progressivo risveglio.

Non mi resta che augurarvi un felice Yule. Che possiate custodire la magia dell’ Inverno dentro di voi…Nonostante l’ infinita pandemia e le nuove incombenti restrizioni.

Santa Lucia

 

” Il 13 Dicembre, al mattino presto, quando freddo e oscurità regnavano sulla terra del  Värmland fino ai tempi della mia infanzia, santa Lucia di Siracusa entrava in tutte le case sparse tra le montagne della Norvegia e il fiume Gullspång. Portava ancora, almeno agli occhi dei bambini, una veste bianca di luce di stelle e sui capelli una ghirlanda verde con fiori ardenti di luce, e svegliava sempre chi dormiva con una bevanda calda e profumata che versava dalla sua brocca di rame. Mai mi capitò all’ epoca visione più meravigliosa di quando la porta si apriva e lei entrava nel buio della mia stanza. E vorrei augurarmi che mai smetta di apparire nelle fattorie del Värmland. Perché è lei la luce che sconfigge le tenebre, è la leggenda che vince l’oblio, è quel calore interiore che rende le contrade gelate ammalianti e piene di sole nel cuore dell’inverno. “

Selma  Lagerlöf, da “La leggenda della festa di Santa Lucia” (ne “Il libro di Natale”)

 

La rubrica Le perle di VALIUM si fonde con il post odierno per celebrare la Festa di Santa Lucia, la “Santa della Luce”. Voglio omaggiarla tramite un estratto che ho selezionato da “Il libro del Natale” (1933) di Selma Lagerlöf, scrittrice svedese Premio Nobel per la Letteratura nel 1909. Tra gli otto racconti a tema natalizio in cui Lagerlöf esplora ricordi, atmosfere, fiabe popolari della tradizione scandinava, ne appare infatti uno intitolato “La leggenda della festa di Santa Lucia”. E’ suggestivo e magico, e volevo proporvene il finale. Perchè Santa Lucia è una delle feste dell’ Avvento che mantiene un’ impronta indelebile nell’ immaginario collettivo. Il nome stesso della Santa, che deriva dal latino “Lux” (“luce”), sembra emanare un avvolgente alone luminoso: un dettaglio indicativo, nel periodo in cui le notti si allungano a dismisura. Non è un caso che, anticamente, il 13 Dicembre coincidesse con i festeggiamenti per il Solstizio d’Inverno, giorno più corto dell’ anno ma anche punto di partenza del nuovo ciclo di ascesa del Sole. Dodici mesi fa ho dedicato un approfondimento alle celebrazioni svedesi di Santa Lucia (rileggi qui l’articolo). Il magnetismo sprigionato da questa ricorrenza mi spinge oggi a soffermarmi sulla sua storia e sulle sue leggende in terra italica.

 

 

Dove a Lucia ci si riferisce sempre come a “Santa della Luce”, seppure con motivazioni leggermente diverse. Se nelle lande del Nord Europa il suo bagliore inaugura il primo baluginio di luminosità dell’ Inverno, in Italia viene associato alla vista (nello specifico, a leggende inerenti al sacrificio dei suoi occhi) e al chiarore delle candele che la accompagnava durante l’ operato svolto a sostegno del cristianesimo. Si narra infatti che portasse segretamente i viveri ai cristiani rifugiatisi nelle catacombe per sfuggire alla persecuzione di Diocleziano, e che per farsi strada nel buio li raggiungesse con una corona di candele fissata sul capo. L’ agiografia descrive Lucia come una giovane di nobili origini nata nel 283 d.C. a Siracusa. Profondamente cattolica, Lucia consacrò la sua verginità a Cristo sin da bambina. Era orfana di padre e viveva con la madre, Eutychia, malata da tempo. Dopo un pellegrinaggio al sepolcro di Sant’Agata, che Lucia invocò affinchè la aiutasse a guarire, la donna riacquistò la salute miracolosamente. Sant’ Agata apparve in sogno a Lucia esortandola ad onorare la fede a cui si era votata con tanta dedizione. La giovane donna, quindi, decise di dedicarsi alla carità: rinunciò al suo patrimonio devolvendolo ai bisognosi, dai quali si recava per portare aiuto, e supportava i cristiani perseguitati in seguito all’ editto che Diocleziano emise nel 303 d.C. . Tutto ciò provocò l’ira del promesso sposo di Lucia, un nobile pagano, che si vendicò denunciandola in quanto cristiana e la costrinse a sottoporsi a un processo conclusosi con il martirio della ragazza. Era il 13 Dicembre del 304 d.C.. Secondo alcune leggende, Lucia perse gli occhi quando fu martirizzata, altre raccontano che se li strappò dalle orbite spontaneamente. Altre ancora, che li offrì in sacrificio a un pretendente. Quando glieli donò, posati su un piattino, venne dotata per miracolo di occhi addirittura più splendenti. L’ innamorato, furibondo, pretese che glieli sacrificasse nuovamente, ma al suo rifiuto la uccise pugnalandola al cuore. Nacque in questo modo il culto di Santa Lucia come protettrice degli occhi e della vista. Luce, occhi e vista si uniscono dunque in un affascinante amalgama che rimanda a svariati miti pre-cristiani.

 

 

Alcuni di questi si ricollegano proprio alla tradizione scandinava: pare che ciò sia dovuto ai Longobardi, stanziatisi nel Nord Europa durante il I secolo a.C.. Quando invasero l’ Italia nel 568, diffusero il culto di Lussi (il cui nome significava “luce”), divinità che in Scandinavia regnava sugli spiriti dell’ Aldilà e sul “piccolo popolo” (gnomi, elfi, fate e folletti). Lussi dominava la notte del 13 Dicembre, la più lunga dell’ anno, chiamata “Lussinatt”, ed era solita volare sui tetti seguita da un bizzarro corteo di anime erranti. Puniva i bambini malvagi, che venivano trascinati su per il camino e condotti nel regno dei morti, e le famiglie che non si stavano preparando adeguatamente alla festa di Yule (il Solstizio d’Inverno). In quella notte fatata, si pensava anche che gli animali avessero facoltà di parola.

 

 

Ma Lussi non era l’unica figura ad appartenere a questo patrimonio mitico. Nella Roma Imperiale veniva venerata la dea Lucina, divinità del parto. Lucina, il cui nome (come quello di Lucia) risalirebbe a “Lux” e potrebbe essere tradotto con “colei che porta i bambini verso la luce”, era anche battezzata Candelifera poichè i parti si svolgevano a lume di candela. Un cero votivo, inoltre, veniva acceso dalle partorienti che invocavano la protezione della dea. La festa di Lucina, di conseguenza, era celebrata nel mese di Dicembre, il periodo del “Dies Natalis Solis Invicti”: quando il Sole, cioè, “rinasceva” e il giorno cominciava progressivamente ad allungarsi dal Solstizio d’Inverno in poi.

 

 

Innumerevoli fattori hanno contribuito a combinare la figura di Santa Lucia con quella di Lussi e della dea Lucina. Generalmente, si ritiene che l’ evangelizzazione cristiana in Scandinavia fu determinante nella propagazione della storia della Santa. Tra popoli che sperimentavano tanto spiccatamente il divario tra buio e luce, la martire di Siracusa che squarciava le tenebre con la sua luminosità divenne popolare al punto tale da dar origine a una festa – quella di Santa Lucia, appunto – celebrata sin dagli inizi del Medievo. Ciononostante, moltissimi altri elementi della tradizione pagana e pre-cristiana germanica ebbero il loro peso nel diffondere il culto di Lucia. Il tema della luce che trionfa sul buio, non a caso, è uno dei cardini portanti della ricorrenza di Yule, anticamente salutata con un tripudio di rituali, convivialità e banchetti. Diamo quindi il benvenuto alla giornata di Santa Lucia: la Festa della Luce.

 

 

Foto di Santa Lucia in Svezia (la 2 dall’ alto) di Claudia Gründer, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, attraverso Wikimedia Commons

 

Il luogo

Un locale accogliente dove degustare una cioccolata calda, magari al tepore del focolare. Novembre non è ancora terminato, ma il freddo si fa già sentire. Il maltempo impazza, le temperature sono calate a picco e la neve incombe…per la gioia di chi, come me, adora l’ Inverno e le sue meraviglie. Mentre Yule, il giorno del Solstizio, si avvicina a grandi passi, nelle città si accendono le prime luminarie; l’ atmosfera natalizia – seppur guastata dalla presenza sempre più opprimente del Covid – inizia a fare capolino e tenta di farci dimenticare, con i suoi bagliori sfavillanti, una realtà in cui le restrizioni persistono e argomenti quali il Super Green Pass, il lockdown, i vaccini e il numero dei contagi la fanno da padroni. Il bisogno di una pausa si fa pressante: per ritrovare il piacere di vivere l’ intimità e il calore, la gioia quasi infantile che la stagione fredda porta con sè. Una tazza di cioccolata calda potrebbe essere l’ emblema di questo break, definendone il sapore e l’ atmosfera. Quando la gustiamo non pensiamo altro che a perderci nella sua delizia. Il fumo che sprigiona la tazza bollente favorisce il relax, è una dolce coltrina di vapore che ci distende e dà adito alle chiacchiere in compagnia. Magari, con un piacevole sottofondo musicale. Nel periodo che precede il Solstizio d’Inverno, certi locali diventano oasi in cui rifugiarsi insieme agli amici più cari. Guardare la neve che fuori cade mentre si gusta la “bevanda degli Dei” è un momento di gioia incomparabile: sapevate che i Maya e gli Aztechi chiamavano proprio così il cioccolato in tazza? Per le civilità pre-colombiane, la mescolanza di acqua, fave di cacao e peperoncino dava origine al Xocoatl, una bibita/dessert dai connotati mitici. In parte perchè i chicchi di cacao venivano considerati talmente pregiati da essere utilizzati persino come valuta, in parte perchè il cacao contiene feniletilamina, un neurotrasmettitore naturale anche detto “ormone dell’amore”. Il nostro cervello lo rilascia, non a caso, quando siamo innamorati, ed è lo stesso che ci dona quella sensazione di benessere imperniata su tutte le nuance dell’euforia. Oltre ad evocare scenari di intima convivialità, dunque, la cioccolata calda è un vero toccasana per l’ umore. Conviene approfittarne, soprattutto di questi tempi…E se non avete il Green Pass? Sostituite il locale con casa vostra o la casa di qualche amico, l’ atmosfera è sempre assicurata.

 

Felice Yule

 

Fin da piccolo pensavo che la brina fosse polvere magica che il vento regalava all’inverno per renderlo più bello, dolce e meraviglioso. Quando quella polvere magica copre ogni cosa, so che la natura non lascia nulla al caso.
(Stephen Littleword)

Felice Solstizio d’Inverno, felice Yule. Chi segue VALIUM sa che mi riferisco al Solstizio prendendo in prestito il nome che aveva nell’ antica tradizione germanica e celtica dell’era pre-cristiana: un nome che – derivante dal norreno “Hjòl” (ovvero “ruota”) – indicava il punto più basso in cui, in questo periodo, si trova la Ruota dell’ Anno. Oggi, il sole raggiunge la declinazione minima nel suo apparente percorso sull’ Eclittica. Il giorno è brevissimo, la notte interminabile, ma le ore di luce torneranno ad allungarsi (seppure impercettibilmente) già da domani. L’ immenso fascino di Yule risiede nella sua valenza simbolica, nel suo incarnare il passaggio tra Autunno e Inverno, tra buio e luce. Miti, tradizioni e rituali associati a Yule risalgono a tempi remotissimi (rileggete qui il post che VALIUM ha dedicato un anno fa all’ argomento). Risaltano i temi incentrati sulla morte, sulla trasformazione, sulla rinascita, perchè il Solstizio d’ Inverno è tutto questo all’ unisono: vita nella morte, luce che si rigenera nell’ oscurità. Non è un caso che presso gli antichi Celti vigesse un rito in cui le donne, immerse nel buio più totale, attendevano che gli uomini rincasassero portando loro una candela per accendere il fuoco; subito dopo, avrebbero celebrato tutti insieme il ritorno della luce, la luminosità emanata dalle fiamme del focolare. Perchè se Yule è neve, cielo color grigio perla, aria pungente, gelo e brina,  è anche – e prima di ogni altra cosa – una promessa di luce. A corredare questo post non troverete foto, ma solo illustrazioni: per esaltare le atmosfere magiche. senza tempo e di pura meraviglia che il Solstizio d’ Inverno porta con sè.

 

 

 

 

Yule, i mercatini e le boules à neige

 

Le luminarie natalizie si sono accese in ogni città, ma è a dir poco malinconico il vuoto lasciato dall’assenza dei mercatini. Le caratteristiche casette-baita che ravvivano i centri storici, quest’anno, mancano all’ appello a causa del Covid e del rischio assembramenti: sentiamo già la nostalgia dei loro profumi, della loro poesia. E anche dei torroni, del croccante, delle paste della Befana disposte in bella vista, del vin brulè fumante che ci fermavamo a bere dopo un bel giro di shopping. Questo post vuol essere quindi un omaggio a tutti i “Villaggi di Babbo Natale” che, per le prossime feste, rimarranno solo nei nostri ricordi. Ho pensato a un tributo particolare, che vede protagonista un tipico oggetto della parafernalia natalizia: la boule à neige. Avete presente? Quella magica palla di vetro che si riempie di neve quando viene agitata con la mano. Nei mercatini di fine anno è immancabile, gettonatissima, un vero e proprio pezzo cult della mercanzia. Ed è tutt’ altro che kitsch: la tempesta di fiocchi che si scatena al di là del suo vetro affascina bambini e adulti. C’è chi le colleziona, altri le acquistano come souvenir, ma le più belle sono senz’altro le boules associate al Natale. L’ incanto invernale, in questo caso, raggiunge vette di pura meraviglia. I soggetti sono quelli strettamente legati a Yule: Babbi Natale, pupazzi di neve, paesaggi imbiancati, agrifogli e candele predominano, dando vita ad una pittoresca rassegna iconografica del Christmas time.

 

 

La boule à neige, lo sapevate?, è un oggetto ben più antico di quanto si pensi. Le sue origini risalgono nientemeno che ai tempi della Belle Epoque. All’ Esposizione Universale di Parigi del 1889, infatti, per celebrare l’ inaugurazione della Tour Eiffel vennero lanciate delle straordinarie boules che riproducevano l’iconica torre al loro interno. Ma pare che già all’ Expo parigina del 1878 spopolassero le poetiche palle di vetro create dai maestri vetrai. Una leggenda vuole, invece, che la prima boule à neige fosse opera di un artigiano francese del vetro: innamorato di una giovane lituana, inventò la sfera piena di neve affinchè la donna non sentisse troppa nostalgia del suo paese. Ricerche recenti hanno attribuito a Pierre Boirre, direttore di un’ antica vetreria di Les Lilas, l’ invenzione dell’ oggetto. Non esistono però testimonianze visive dei prodotti, per cui si preferisce far riferimento al lancio ufficiale dei “globes panoramiques” nel 1889. L’ era contemporanea ha sancito definitivamente la preziosità della boule à neige: le griffe della moda e del lusso hanno attinto al suo fascino a piene mani, realizzandone raffinatissimi esemplari. Tra i marchi coinvolti risaltano nomi del calibro di Givenchy, Chanel, Louis Vuitton, Sonia Rykiel e molti altri ancora. Le boules à neige che vi propongo oggi, invece, sono squisitamente figurative: illustrazioni di palle di vetro arricchite dai più suggestivi motivi che rimandano a Yule. Lo sfondo blu acquerello, i fiocchi di neve di cui è cosparso, inseriscono l’ oggetto in una cornice onirica e fiabesca. Ogni boule esprime appieno la sua peculiare magia, sia che sfoggi emblemi del periodo natalizio o scene prettamente invernali: qual è la vostra preferita?